Di fronte a certi fatti di cronaca nera che coinvolgono i giovani, il dolore e lo sconcerto sono comprensibili. Ma quando il ruolo istituzionale si confonde con quello morale o educativo, è lecito e doveroso porsi delle domande. La procuratrice Anna Maria Lucchetta, rispondendo alle domande dei giornalisti circa l'omicidio della povera ragazza Martina Carbonaro da parte del suo ex fidanzato Alessio Tucci, avvenuto solo qualche giorno fa, ha dichiarato: "Dobbiamo educare all'amore". Parole forti, indubbiamente sentite che hanno fatto il giro dei media e raccolto molta attenzione. Ma qui sorge un problema: davvero è compito di un procuratore, un rappresentante della giustizia, fare appelli pedagogici? E soprattutto, che messaggio veicola un'affermazione del genere?
Viviamo in un'epoca in cui tutto si mescola: giustizia e psicologia, diritto e pedagogia. Ma un magistrato non è un educatore. Un procuratore ha il dovere di indagare, accusare, portare prove, non di dire ai cittadini come devono educare i propri figli, ma sopratutto veicolare il messaggio che nessuno, se non lui, è capace di educare i propri figli e che il fenomeno sia di proporzioni gigantesche, come se fosse un'emergenza nazionale.
L'idea che la magistratura debba intervenire anche sul piano educativo e morale è pericolosa. Significa estendere il campo d'azione di un potere già enorme, quello giudiziario, in una sfera che dovrebbe restare, in primis, personale, poi sociale e al limite politica. "Educare all'amore" è una bella espressione, ma detta da un procuratore assume un significato diverso: implica che lo Stato, nella sua forma giudiziaria, debba anche farsi guida morale.
Questo è un problema non da poco. Un giudice, un procuratore, sono lì per applicare la legge, non per insegnare, quando la giustizia si trasforma in un pulpito da cui lanciare messaggi morali, non stiamo più parlando di diritto, ma di ideologia e la giustizia non dovrebbe mai essere ideologica. La retorica usata dalla Lucchetta: "tutti dobbiamo educare all'amore" parte da una premessa discutibile ed, appunto, ideologica: che siamo tutti, in qualche modo, responsabili dei crimini commessi da pochi. La stragrande maggioranza dei ragazzi non uccide, non violenta, non aggredisce, non esiste nessuna emergenza nazionale.
Generalizzare, anche con buone intenzioni, è sempre pericoloso, perchè crea una colpa collettiva dove non esiste, e in più deresponsabilizza i veri colpevoli. Se tutto è colpa della società, della fantomatica mentalità "patriarcale", allora non è colpa di nessuno. Se tutti dobbiamo "imparare ad amare", allora chi ha commesso il crimine è solo il prodotto di un ambiente tossico, non una persona che ha scelto consapevolmente di compiere il male.
La giustizia deve essere giusta, non emotiva, nè empatica e men che meno pedagogica. Deve essere lucida, imparziale, coerente. Quando un procuratore prende la parola, ci si aspetta rigore, precisione, rispetto del ruolo, non frasi ad effetto buone per i social. Non si risolve la violenza con gli slogan, nè si raddrizza la società con le frasi ad effetto, serve coraggio, responsabilità e una sana distinzione dei ruoli. Perchè un Paese che affida l'educazione ai procuratori ha smesso di credere nella propria comunità e ha cominciato, lentamente, a farsi processare da se stesso.
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