mercoledì 29 novembre 2017

Biglino e la violenza nella Bibbia

Fra i vari argomenti utilizzati da Biglino per cercare di dimostrare che il Dio d’Israele, Yahweh, non sia altro che un feroce capo militare appartenente alla misteriosa casta degli Elohim, ricorre spesso quello riguardante le atrocità e le violenze presenti nella Bibbia. Secondo Biglino, infatti, tali efferatezze non sarebbero altro che la testimonianza di una guerra in cui gli Ebrei, guidati dal loro capo militare Yahweh, hanno distrutto i loro nemici. Nessun Dio, sostiene Biglino, si comporterebbe in questo modo, comandando ed ordinando assassini, stermini, stragi, stupri, rapine e devastazioni. In libri come il Deuteronomio, ad esempio, Dio ordina lo sterminio di interi popoli abitanti la terra di Canaan (cap. 7), oppure nel libro dei Numeri, dove questo feroce Dio comanda addirittura lo stupro delle giovani Madianite (cap.31).


Biglino sfrutta abilmente la vecchia questione della violenza ordinata da Dio, presente nella Bibbia, per tirare l’acqua al suo mulino. Egli sa bene quanta presa e quale impressione generi questo argomento presso il lettore comune ed infatti l’idea che il dio biblico sia solo un bieco sanguinario è uno degli argomenti più gettonati dai denigratori della religione cristiana. Si tratta di una questione antichissima che si propose già nel II secolo d.C. quando il proto-gnostico Marcione, un vescovo e teologo greco antico, propugnò un primo abbozzo di canone delle scritture da ritenersi vere e sacre, in cui tutto l’Antico Testamento veniva scartato come manifestazione di un Dio cattivo e deteriore. Ma già da allora la Chiesa rifiutò una tale impostazione tenendo sempre in grande considerazione la rivelazione di Dio lungo tutta la storia della salvezza e condannò le tesi marcioniste. Oggi, come un novello Marcione, Biglino denigra l’Antico Testamento, ma in realtà si tratta dell’ennesima visione rozza e primitiva dello studioso piemontese che interpretando letteralmente la Bibbia non riesce, o non vuole, cogliere le vere caratteristiche della rivelazione di Dio che si attua nella Scrittura. Egli sembra non conoscere affatto il metodo storico-critico assolutamente necessario per lo studio scientifico del significato dei testi antichi. La Scrittura riporta il pensiero e l’azione di Dio mediati dall’agiografo e questi sono resi in un linguaggio umano. Ciò che occorre tenere ben presente è il fatto che la Bibbia non è un libro “calato dal cielo”, ma si tratta di una composizione realizzata da autori umani in tutte le sue parti e in tutte le sue fonti. La sua giusta comprensione, quindi, non può che affidarsi, anche e soprattutto, al metodo storico-critico.

Per poter dunque spiegare come sia possibile che Dio ordini queste azioni violente non basta una semplice traduzione letterale, bisogna conoscere la letteratura, la cultura e i costumi attraverso i quali questi autori ci hanno trasmesso questi fatti e la rivelazione con essi veicolata. La Palestina nei secoli XII ed XI prima di Cristo è una terra particolarmente violenta, abitata da popoli sempre in guerra tra di loro. Molti scavi archeologici hanno mostrato la distruzione violenta di diversi insediamenti cananei intorno al 1250-1200, a testimonianza del fatto che l’uso di distruggere le città nemiche ed eliminare tutti i loro abitanti rappresentava l’usuale modo per dirimere le questioni tra fazioni avverse. In quei tempi era anche diffusissima l’usanza di ingraziarsi i favori di dei crudeli e sanguinari attraverso sacrifici umani, anche di bambini. Come, ad esempio, i sacrifici al dio Moloch nei quali i bambini venivano sgozzati e poi bruciati in olocausto. La conquista della Terra di Canaan da parte di Israele, la biblica terra promessa da Dio, è raccontata e presentata come una qualsiasi guerra di conquista di quel tempo, dove era normale e scontato procedere con distruzioni di città ed eccidi dei nemici. Furono atti decisi dai condottieri dell’esercito israelita, Mosè e Giosuè, perché quello era il modo con cui si procedeva ad una conquista bellica. La rivelazione di Dio si presenta, quindi, attraverso la mentalità dell’agiografo di quei tempi dove la possibilità di poter annientare il nemico significa la sopravvivenza per il proprio popolo errante. Dio promette agli israeliti la Palestina e la Bibbia celebra l’avverarsi di tale promessa attraverso la gloria e la potenza di una conquista armata vittoriosa, riflesso, per quegli uomini, della grandiosità del loro Dio.
Gli ordini divini di attuare lo sterminio sono, quindi, un modo enfatico e sacrale per descrivere gli ordini di Mosè o di Giosuè, che secondo l’uso del tempo, adempivano alla volontà divina, perché era Dio che li guidava nella terra a loro promessa. Era un loro comando, ma presentato, secondo l’uso del tempo, come un comando divino, perché essi, come capi, agivano quali intermediari di Dio. 

In questa fase non è possibile ravvisare alcun un giudizio morale da parte della Bibbia, ma solo la rivelazione di un Dio potente che con mano forte guida Israele. La valutazione morale, invece, dev’essere individuata nel progressivo sviluppo etico del popolo ebraico. Quello che Biglino ignora è proprio questa evoluzione e il fatto che la Bibbia trova il suo senso solo in una visione unitaria e progressiva. Non è possibile applicare la nostra visione e la nostra morale contemporanea a vicende puntuali e così distanti nel tempo. La Bibbia espone una progressiva affermazione della morale divina, all’inizio con la vendetta come forma di giustizia: “Chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte” (Gen 4,15), per passare alla cosiddetta legge del taglione: “Vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede” (Dt 19,21), fino ad arrivare alle vette del vangelo dove Gesù istituisce la legge dell’Amore: “Avete inteso dire che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori” (Mt 5, 43-44). 

Alla luce di tali evidenze il criterio generale di interpretazione deve dev’essere quello di un Dio che si è rivelato servendosi degli uomini, della cultura, dei modi di concepire la santità di Dio e la giustizia tra gli uomini secondo i costumi del tempo. Spiega molto efficacemente il biblista ed ebraista Gianfranco Ravasi: “È stato spiegato a più riprese dagli studiosi che questi limiti dell’Antico Testamento sono legati a un dato fondamentale della Bibbia. Essa non è una collezione di tesi teologiche e morali perfette e atemporali, come sono i teoremi in geometria, bensì è la storia di una manifestazione di Dio all’interno delle vicende umane. È dunque un percorso lento di illuminazione dell’umanità perché esca dalle caverne dell’odio, dell’impurità, della falsità e s’incammini verso l’amore, la coscienza limpida e la verità. Sant’ Agostino definiva appunto la Bibbia come il libro della pazienza di Dio che vuole condurre gli uomini e le donne verso un orizzonte più alto”. (da «Non uccidere!» Il quinto comandamento, Gianfranco Ravasi) 

Illuminante in tal senso è il documento conciliare Dei Verbum, la Costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione, che dice: “I libri dell'Antico Testamento, sebbene contengano anche cose imperfette e temporanee, dimostrano tuttavia una vera pedagogia divina […] Dio, ispiratore e autore dei libri dell'uno e dell'altro Testamento, ha sapientemente disposto che il nuovo fosse nascosto nell'antico e l'antico diventasse chiaro nel nuovo" (DV 15-16), 

La Sacra Scrittura, composta in un arco di tempo molto lungo, è un insieme di libri che trova il suo senso generale solo in una visione unitaria. Per comprendere una parte bisogna collegarla a questa visione complessiva, in tutte le sue tappe, dal primo libro dell’Antico Testamento, fino all’ultimo libro del Nuovo. In tale ottica appare chiaro lo sviluppo progressivo della rivelazione divina. Si tratta di un'indicazione preziosa per evitare l’errore di Biglino di affidarci ad una pericolosa interpretazione letterale, che tradisce anziché favorire la comprensione di un dato testo. 



Bibliografia

J. A. Soggin “Storia d’Israele” – Paideia Editrice Bologna 1984;
G. Garbini “Storia e ideologia nell’Israele antico” Paideia, Brescia 1986;
J.M. Miller, J.H. Hayes ”A History of Ancient Israel and Judah” London 1986;
G. Barbaglio “Dio violento? Lettura delle Scritture ebraiche e cristiane” Cittadella, Assisi 1991;
I. Finkelstein, N. A. Silberman ”Le tracce di Mosè. La Bibbia tra storia e mito” Carocci, Roma 2002.

mercoledì 15 novembre 2017

Lo scisma d'Oriente

I concili ecumenici di Nicea del 325 d.C. e di Costantinopoli del 381 d.C. pervennero alla composizione del famoso simbolo della fede cristiana, “il Credo”, una formula che noi cristiani recitiamo ancora oggi durante la Messa. Tra le verità di fede espresse da quel dettato c’è la proclamazione dell’unità della Chiesa. La Chiesa è “una”, perché è una la sua origine, è uno il suo Fondatore, Gesù Cristo, ed è una la sua “anima”, lo Spirito Santo. 

Purtroppo, come sappiamo, questa solenne verità di fede è stata più volte ferita dai cristiani che con i loro peccati hanno diviso invece che unire il popolo di Dio. Durante i secoli eresie, scismi, apostasie, hanno portato ad una frammentazione che rappresenta un vero e proprio scandalo. Questo stato di cose non può che portare discredito alla Chiesa di Cristo, nonché sconcerto tra le anime più semplici. Oltre a ciò si è aggiunto anche lo scherno dei nemici di Cristo e della Chiesa, come quello dei laicisti, anche di quelli più beceri ed ignoranti. Ad esempio il pittoresco opinionista, matematico a tempo perso, Piergiorgio Odifreddi, pur essendo notoriamente a digiuno dei temi riguardanti la storia della Chiesa, non esita a rigirare il coltello nella piaga: “Il Cristianesimo […] si divide in varie sette: i Cattolici nell'Europa e nell'America del Sud, i Protestanti nell'Europa e nell'America del Nord, gli Ortodossi nell'Europa dell'Est, e gli Anglicani in Inghilterra. In questa cacofonia di voci discordanti molti sostengono di parlare in nome e per conto di Gesù, in maniera più o meno istituzionale, e qualcuno pretende addirittura di esserne il vicario in terra, con gran confusione dei poveri di spirito” (www.piergiorgioodifreddi.it/wp-content/uploads/2010/10/gesu.pdf). 

In realtà è un errore pensare, come fa Odifreddi, che esistano cristianesimi diversi, dove ognuno pretende di essere quello autentico, piuttosto occorre riflettere sul fatto che tali fratture sono state principalmente causate da motivazioni storico-politiche. Ad esempio, nel caso del grande scisma d’Oriente del 1050 tra la cosiddetta Chiesa Occidentale e quella Orientale, una grossa ferita che ancora sanguina in seno alla Chiesa cristiana, la separazione fu causata primariamente da motivi politici e da una serie di incomprensioni ed oggettive ed inevitabili difficoltà delle comunicazione e delle relazioni tra popoli molto differenti culturalmente e distanti geograficamente. 

Già la separazione politica tra l’impero romano d’Occidente e quello d’Oriente, nel V secolo, conferma non solo l’impossibilità politica di mantenere unito un così grande territorio, ma anche il processo di allontanamento, già in atto, tra le due parti dell’impero, quella sorta dal mondo latino e quella nata dal mondo greco-ellenistico. Nel corso del V secolo comincia a manifestarsi un’ignoranza reciproca già sul piano linguistico, Agostino di Ippona, per esempio, ignora il greco, che in Oriente sta per sostituire completamente il latino come lingua ufficiale. Perfino le eresie sono differenti, mentre in Oriente imperversa la polemica con Pelagio sulla problematica riguardante la natura umana e la grazia divina, in Occidente si affrontano le questioni cristologiche. 

Occorre anche ricordare le invasioni barbariche in Occidente che accentuano le differenze. Dopo la caduta dell’impero romano d’Occidente nel 476, la maggioranza dei cristiani occidentali sono barbari o barbarizzati, mentre gli orientali si sentono orgogliosi di essere rimasti romani civili e raffinati. Per di più le invasioni slave ed arabe nei secoli seguenti, provocando un’interruzione temporanea delle comunicazioni tra Oriente ed Occidente, accelerano l’evoluzione divergente delle due aree culturali. E’ inevitabile, quindi, che quando si ristabiliscono le comunicazioni esistano da entrambe le parti delle gravi incomprensioni delle differenze reciproche. 

Già la crisi iconoclasta dell’VIII secolo rappresentò una fase iniziale dello scontro, non solo religioso, ma principalmente politico, tra Roma e Costantinopoli, per arrivare alla prima crisi vera e propria con il caso di Fozio. Questo personaggio, che non apparteneva al clero, assai colto e uomo politico di notevole rilievo, venne eletto patriarca di Costantinopoli nell’858, dopo le forzate dimissioni del suo predecessore Ignazio. Il papa Niccolò I, ovviamente, rifiutò di riconoscere tale elezione, ritenendo Ignazio il patriarca legittimo, e scomunicò Fozio. Ciò portò alla rottura, aggravata anche da rivalità di giurisdizione ecclesiastica sulla Bulgaria. Fozio venne a sua volta destituito nell’867 e tornò patriarca Ignazio. Morto costui nell’887, Fozio gli successe una seconda volta ottenendo il riconoscimento da papa Giovanni VIII. Quando le cose sembrano essersi risolte, a testimonianza di un processo di rottura ormai giunto al suo apice, riprese la contesa che andrà sempre più gonfiandosi attorno ad importanti questioni politico-religiose come il primato del papa e la dottrina del “Filioque” (Lo Spirito Santo, secondo la Chiesa latina, procede dal Padre “e dal Figlio”), ma anche per motivazioni molto meno serie come l’opportunità dell’uso del pane azzimo per l’Eucarestia, il celibato dei preti, la disciplina del digiuno, la soppressione dell’ “alleluia” durante la quaresima, la barba degli ecclesiastici, ecc. Quando nel 1050 un vescovo orientale, Leone di Ochrida, solleva una polemica di carattere liturgico, una sua lettera di condanna di diverse usanze latine divenne la goccia che fece traboccare il vaso e decenni di incomprensioni reciproche presero il sopravvento. Papa Leone IX inviò a Costantinopoli una legazione diretta dal fedele cardinale Umberto di Silva Candida che andò scontrandosi col patriarca Michele Cerulario. Due avversari di scarsa buona volontà e senza mezze misure. Il 16 luglio, proprio mentre la morte di papa Leone IX, avvenuta nel frattempo, faceva decadere la validità dell’ambasciata di Umberto, si verifica la frattura e la scomunica reciproca. 

La separazione tra il cristianesimo orientale e quello occidentale fu, quindi, il frutto di malintesi e di atteggiamenti malintenzionati. Era inevitabile che maturassero diversità di interessi politici e differenze nell’espressione della fede tra popoli così distanti tra loro. Ma nonostante tutto ciò la fede cristiana era e rimase sempre la stessa, le due confessioni possiedono una fede comune. Tra le due confessioni cristiane esistono ben poche divergenze teologiche, e tutto oggi lascia credere che si tratti di una faccenda di formule. Ciò è confermato dal fatto che nel 1965, papa Paolo VI e il patriarca Atenagora abolirono le rispettive scomuniche, che nel 1979 l’incontro tra papa Giovanni Paolo II e il patriarca Dimitrios I diede vita alla Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa. Fino ad arrivare all’odierno papato di Francesco caratterizzato da un forte percorso ecumenico, spiegato in dettaglio nell’enciclica Evangelii Gaudium, dove l’unità passa attraverso la diversità e dove vengono promossi rapporti più orizzontali sia con gli altri credo religiosi che con la Chiesa ortodossa. 

La Chiesa è una e deve tendere all’unità. Questa verità e questo impegno devono costituire una necessità primaria e insopprimibile. A mio avviso è fondamentale convincersi che il messaggio cristiano può essere recepito da culture diverse e che la teologia non è fatta per giustificare rivalità politiche o ideologiche. 


Bibliografia 

F. Dvornik “Lo scisma di Fozio” Edizioni Paoline, 1952;
S. Runciman “La civiltà bizantina” Sansoni, Firenze 1960;
D. Obolensky “La Chiesa bizantina” in M. D. Knowles, D. Onolensky “Il Medio Evo” Marietti Torino, 1971;
C. Dhiel, C. Capizzi “Storia dell’impero bizantino” Pontificio Istituto Orientale, Roma 1977;
A. P. Kazhdan “Bisanzio e la sua civiltà” Roma-Bari, Laterza, 1994;
G. Ravegnani ”La storia di Bisanzio” Roma, Jouvence, 2004.