mercoledì 25 gennaio 2017

L'importanza del successore di Pietro

I vangeli dimostrano chiaramente come Gesù abbia voluto affidare a Pietro il ruolo specifico di guida dell’intero collegio apostolico. Per avere un riscontro ampio e dettagliato di tale affermazione rimando il lettore al seguente link. Ma i non cattolici o i critici in genere del primato della Chiesa di Roma mi fanno notare spesso che i vescovi di Roma del primo e secondo secolo non ebbero mai alcuna pretesa del genere.


Citano sovente il passo della lettera ai Galati al capitolo 2, versetto 7, dove Paolo afferma di essere stato inviato ai pagani e che Pietro venne inviato agli Ebrei. Perché mai bisogna vedere in Pietro il pastore universale della Chiesa se ha ricevuto la sola responsabilità dei giudeo-cristiani?

In effetti dal martirio di Pietro (circa 67 d.C.) fino all’avvento di papa Vittore (189 d.C.) l’operato dei vari vescovi di Roma che si sono succeduti ha lasciato poche tracce, quindi non è ben chiaro il ruolo che essi hanno ricoperto nel quadro della Chiesa universale. Esiste, però, un documento molto importante che è la lettera scritta da Clemente, il vescovo di Roma, attorno al 95 d.C., con cui intervenne all’interno della comunità cristiana di Corinto. Da questa lettera si può intuire un ruolo di guida che già nel primo secolo veniva riconosciuto al vescovo di Roma. E’ con Ireneo di Lione che abbiamo la certezza della considerevole reputazione della Chiesa di Roma. In una sua opera contro le eresie, scritta attorno al 185 d.C., il vescovo Ireneo, discepolo di san Policarpo, la nomina come “la chiesa più grande e antica, a tutti nota, fondata e costituita in Roma dai gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo”, affermando anche che “con questa chiesa, in ragione della sua autorità superiore, deve accordarsi ogni chiesa, cioè i fedeli di tutto il mondo, poiché in essa è stata conservata la tradizione apostolica attraverso i suoi capi” (Contro le Eresie, III, 3, 2). Nel 189 papa Vittore interviene contro le chiese d’Asia minore nella controversia per la data della Pasqua, siamo già di fronte ad una figura ampiamente accettata del vescovo di Roma come garante dell’ortodossia della fede. 

Nel terzo secolo documenti del genere si fanno più numerosi, attorno al 240 d.C. papa Flaviano censurò e depose Privato, vescovo di Lambesis in Africa, perché eretico e scandaloso; fu in relazione con Origene, da cui ricevette assicurazione della sua ortodossia contro accuse di eresia che gli erano state mosse contro; Papa Stefano nel 254-257 d.C. si oppone a Cipriano, vescovo di Cartagine, proibendo di ripetere il battesimo amministrato dagli eretici; nel 260 Papa Dionigi chiede conto al vescovo Dionigi di Alessandria circa alcune espressioni trinitarie; e così via.

Nel corso della crisi ariana, un momento terribile nel quale l’ortodossia cristiana corse seriamente il rischio di sparire, la chiesa romana si erse a baluardo sostenendo sempre la lotta di sant’Atanasio, irriducibile avversario delle tesi ariane. Verso la fine del IV secolo appaiono il termine “Sede apostolica” e le espressioni “l’apostolo san Pietro stesso dirige la Chiesa di romana” e “Pietro parla per bocca del vescovo di Roma”. Al Concilio di Efeso, del 431, papa Celestino I appoggia attivamente Cirillo attraverso i suoi legati ed approva le sue tesi, ma è con papa Leone I che abbiamo con forza e precisione la giurisdizione sovrana del papa di Roma su tutte le altre chiese. Tale giurisdizione si basa sul fatto che la chiesa romana è sempre stata salda nella fede e che tale fede è la stessa dell’apostolo Pietro. Nel 449 bastò l’opposizione dei legati di Leone I per rendere nullo il conciliabolo organizzato ad Efeso dall’imperatore Teodosio II e dal patriarca Dioscoro, passato alla storia come il “latrocinio di Efeso”, per riabilitare Eutiche e la sua eresia sulla natura di Cristo. Al contrario, il Concilio di Calcedonia del 451 venne tenuto dai legati romani e quando venne comunicata la lettera di Leone al patriarca Flaviano, i vescovi acclamarono dicendo: “Pietro ha parlato per bocca di Leone, noi pensiamo come Leone”. Il papa intervenne anche a proposito del canone 28 di questo Concilio, riguardante i diritti patriarcali di Costantinopoli, annullandolo in virtù della sua ormai riconosciuta autorità. 

Con Leone I, dunque, è ormai chiaramente affermata un’autorità suprema nella Chiesa, indipendente dal potere laico perché fondata non sull’importanza politica della sede romana, ma sulla successione al principe degli apostoli, Pietro.

Già dalle origini i cristiani avvertono l’importanza del tutto speciale della Chiesa e del vescovo di Roma. Nella capitale dell’immenso impero romano c’era la Chiesa fondata dagli apostoli Pietro e Paolo e veniva conservato il ricordo del loro martirio. Questo fatto ha sempre ispirato tutti i cristiani a volgersi verso Roma per avere l’interpretazione autentica, il parere finale. All’inizio la comunione tra i vescovi era assicurata dallo scambio frequente di lettere e messaggeri, ma quando si cominciò a far sentire la necessità di una coordinazione, l’autorità dei metropoliti, cioè i vescovi delle città più importanti, e dei patriarchi, cioè i vescovi delle chiese più antiche, sugli altri vescovi, e la comunione dei patriarchi fra loro, divenne il mezzo per mantenere l’unità e la coesione della Chiesa. E così, in modo sempre più chiaro ed automatico, la società ecclesiale arrivò a scorgere nel vescovo di Roma il naturale ed ultimo ricorso in caso di conflitto. Proprio nel IV secolo si cominciò a riflettere teologicamente sulle parole di Gesù: “Tu sei Pietro e su questa pietra…” (Mt 16, 18) applicandole al papa e ci si cominciò a rendere conto che al vescovo di Roma era affidata la continuazione del ministero di Pietro, continuazione prevista ed istituita da Cristo stesso, così come riportato nei vangeli.

Questa presa di coscienza è stata progressiva, agli inizi, per umiltà e discrezione, i primi vescovi romani sono stati riluttanti a rivendicare in ogni momento l’autorità derivante loro dall’essere i successori di Pietro. Dopo quattro secoli, però, di fronte alla necessità di mantenere la coesione della Chiesa e la fedeltà al deposito della fede, la rivendicazione del primato da parte dei papi divenne non solo auspicabile, ma anche urgente. Questo principio, il “primato petrino”, sarà la roccia che in seguito garantirà l’indipendenza e la fedeltà della Chiesa in mezzo ad una storia tormentata e farà in modo che essa non si confonda con nessuna civiltà e nessuna società. 


Bibliografia

P. Brezzi “Il papato” Studium, Roma, 1967;
P. Touilleux, “La Chiesa nella Bibbia”, ED. Paoline, 1971;
H. Stirnimannn, L. Vischer “Papato e servizio petrino” Ed. Paoline, 1976;
G. Falbo, “Il primato della Chiesa di Roma alla luce dei primi quattro secoli” Coletti, Roma 1989; 
J.M. Tillard, "Il vescovo di Roma", Queriniana 2003.

martedì 17 gennaio 2017

Parte XVI – La Genesi e la donna

Ne “Il Codice da Vinci” D. Brown sostiene che l’antifemminismo della Chiesa Cattolica trae le sue origini addirittura dalla Genesi, si può leggere pag. 279: "… E’ stato l’uomo, non Dio, a creare il concetto di “peccato originale”, secondo cui Eva ha assaggiato la mela e procurato la caduta della razza umana. La donna, che un tempo era la sacra generatrice di vita, adesso era diventata il nemico.” “Devo aggiungere” intervenne Teabing ”che questo concetto di donna come portatrice di vita era il fondamento dell’antica religione. Il parto era qualcosa di misterioso e potente. Purtroppo la filosofia cristiana ha deciso di appropriarsi del potere di creazione femminile ignorando la verità biologica e facendo dell’uomo il Creatore. La Genesi ci dice che Eva è stata creata da una costola di Adamo. La donna divenne una derivazione dell’uomo. Una derivazione peccaminosa. Per la dea, la Genesi fu l’inizio della fine”…"

Una penosa dimostrazione di incredibile ignoranza. Per cercare di costruire una base alla sua patetica teoria, D. Brown s’inoltra in ambiti per lui totalmente sconosciuti e, fatalmente, finisce per perdersi. Come è possibile attribuire alla filosofia cristiana ciò che è scritto nell’antichissima Genesi, primo libro dell’Antico Testamento, costituito dall’assemblaggio di documenti e tradizioni lungo l’arco di tempo tra l’epoca di Mosé (XIII secolo a.C.) e quella della restaurazione d’Israele dopo l’esilio a Babilonia (V secolo a.C.)? La sua lettura è ingenua e rozza, un concentrato di ignoranza e luoghi comuni. La Genesi non dice affatto che l’uomo ha creato la donna ed attribuisce sia all’uomo che alla donna la responsabilità del “peccato originale”, ossia di aver mangiato dell’albero della conoscenza del bene e del male (non c’è alcuna mela, n. d. r.). 

Come tutti sanno la Genesi è un libro caratterizzato da uno stile letterario fortemente simbolico. Occorre, quindi, tener conto del significato di tali simboli per avere la giusta chiave di lettura. Nella Genesi abbiamo due narrazioni della creazione dell’uomo, una attribuita alla tradizione cosiddetta “elohista”, più recente ed elaborata, ed un’altra detta “jhavista”, più antica e, quindi, ricca di elementi antropomorfici. Nella prima narrazione: "Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò" (Genesi 1, 27) appare chiaro il messaggio di uguaglianza di sostanza e dignità tra l’uomo e la donna in quanto due metà della stessa umanità creata da Dio. Sant’Agostino, il grande Padre e Dottore della Chiesa del primo millennio, diceva chiaramente riguardo a questo passo della Genesi: “la donna è con suo marito immagine di Dio, cosicché l’unità di quella sostanza umana forma una sola immagine” (De Trinitate XII 7)

Questo stesso messaggio, seppure in modo meno esplicito, è racchiuso anche nella seconda narrazione caratterizzata da una forma fortemente simbolica: "Poi il Signore Dio disse: “Non è bene che l'uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile”. Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all'uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l'uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma l'uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile. Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull'uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all'uomo, una donna e la condusse all'uomo. Allora l'uomo disse: «Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa. La si chiamerà donna perché dall'uomo è stata tolta. Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne. Ora tutti e due erano nudi, l'uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna»"(Genesi 2, 18 – 24).

In questo brano la donna, in un’epoca in cui è reputata un essere inferiore, schiava dell’uomo, viene sorprendentemente considerata come una sua pari. Infatti l’uomo non trova tra gli animali un aiuto che gli sia simile e quando lo trova nella donna, che Dio gli ha posto accanto, riconosce che esso è osso delle sue ossa e carne della sua carne, cioè della sua stessa natura e sostanza. Dio, posto il sonno nell’uomo, plasma una donna da una sua costola. In ebraico costola (= selà) significa anche “lato”, ciò sta ad indicare che la donna è vista come la metà dell’uomo. Dio non “prende” la donna dalla testa dell’uomo, ne avrebbe fatto un essere superiore, né dai suoi piedi, avremmo un essere inferiore, ma dal lato dell’uomo perché ne costituisce la metà. Questa complementarietà definisce la caratteristica principale dell’uomo creato da Dio: quella di essere sessuato in maschio e femmina. Per questo, la Genesi dice: "l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne" proprio per ribadire la necessità della vita di coppia come realizzazione dell’unità creata da Dio. 

Ma c’è di più, la Genesi, tanto disprezzata da D. Brown, si spinge ben oltre. Alludo al cosiddetto protovangelo che si legge nel capitolo 3, versetto 14: "Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché tu hai fatto questo, sii tu maledetto più di tutto il bestiame e più di tutte le bestie selvatiche; sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita. Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno»". Nella sua infinita bontà, Dio, subito dopo il peccato dell’uomo, progetta la sua salvezza che affiderà proprio alla stirpe della donna.

Non c’è traccia di antifemminismo nella Genesi, l’uomo e la donna sono creati da Dio, hanno pari dignità e sono chiamati a partecipare con Lui alle meraviglie della Creazione, quelle di D. Brown sono, quindi, solo fandonie date in pasto ai creduloni.