lunedì 28 dicembre 2015

Buon 2016!!!


Siamo alla fine dell'anno e in questo periodo ricorre l'anniversario della nascita del mio blog. Sono passati già quattro anni da quel primo post del 27 dicembre del 2011 e quest'anno il blog ha superato le 60.000 visite. Si tratta di un buon attestato di interesse che mi sprona ad andare avanti. 

Da quel primo post del 2011 si sono succeduti altri 167 articoli che hanno spaziato dall'attualità alla storia del cristianesimo e della Chiesa. Si è trattato di un grosso impegno, ma il desiderio di continuare è ancora molto forte e spero di essere d'aiuto a chiunque avesse il desiderio di ascoltare un'infomazione diversa da quella "politicamente corretta" che i media ci propinano continuamente. Ovviamente mi riferisco anche ai temi storici, a me tanto cari, che ho trattato con un'ottica non convenzionale, lontano dagli angusti spazi della storiografia asservita al laicismo. 

Anche nel prossimo anno, quindi, continueranno le serie di articoli sui temi delle etichette, ma conto di inaugurarne anche di nuove e di dare inizio finalmente alla serie di articoli sul tema delle crociate, un argomento di cui sono un appassionato e che, forse, più di tutti è stato maggiormente manipolato dalla storiografia laicista di stampo illuminista. 


Non mi resta, quindi, che darvi appuntamento alle prossime pubblicazioni e di augurare a tutti voi frequentatori del blog i miei migliori auguri di un buon 2016.

venerdì 25 dicembre 2015

Buon Natale




A tutti i frequentatori e visitatori del blog auguro
un sereno e felice Natale del Signore!

mercoledì 23 dicembre 2015

Je suis Slovenia

Con una schiacciante vittoria del 63% contro 36% il popolo Sloveno, in uno storico referendum, ha detto no al matrimonio ed alla possibilità delle adozioni per le coppie omosessuali. Così come è già successo per paesi come la Romania, la Polonia e l’Ungheria, dove le lobby gay non sono così potenti da influenzare gli esiti dei referendum, ha prevalso il buon senso di difendere la famiglia naturale dall’attacco della colonizzazione ideologica laicista. In Slovenia, nonostante tutti i partiti politici si fossero schierati a favore delle nozze e delle adozioni per le coppie omosessuali e che solo la Chiesa si fosse schierata per il no, ha vinto il senso di responsabilità e l’amore per la libertà, la voglia di non farsi condizionare e la possibilità di esprimere i propri profondi convincimenti. 

Scrivo per solidarietà con il popolo sloveno e per divulgare il più possibile questa notizia che è stata vergognosamente celata dai maggiori organi di informazione. Silenzio assoluto nei telegiornali e solo qualche riga stiracchiata sui giornali a maggiore tiratura, con uno scandaloso silenzio da parte di testate come l’Unità e il Manifesto. E’ il tipico comportamento del sistema laicistico dell’informazione: come non ricordare gli strombazzamenti ed il surplus informativo sullo stesso referendum avvenuto in Irlanda a maggio scorso? Giorni e giorni di servizi TV, articoli su articoli, tavole rotonde, approfondimenti, un bombardamento mediatico in piena regola. Quando la musica, però, cambia cala il silenzio. Con tanti saluti alla democrazia.         

venerdì 18 dicembre 2015

Lutero e il successo della sua Riforma

Lutero è indubbiamente una figura cardine della storia dell’Europa, al punto che molti storici pongono la sua Riforma, che per la storiografia tradizionale prese l’avvio con l’affissione delle 95 tesi sulla porta della cattedrale di Wittemberg nel 1517, come l’inizio dell’era moderna. Questo perché, e forse a ragione, la sua iniziativa, che molto probabilmente travalicò le reali intenzioni del monaco agostiniano, innescò una reazione a catena di sconvolgimenti dell’ordine costituito ed una rivoluzione nei rapporti tra lo Stato e l’autorità religiosa che portarono ad una nuova visione della società.

Questa figura è stata anche enormemente mitizzata, basta pensare che per tutto il XIX secolo in Germania la retorica di stampo illuminista ha trasformato la vicenda di Lutero in un vero e proprio mito storiografico: l’Ercole germanico, ribelle contro l’oscurantismo romano, che ha portato la libertà al popolo tedesco. Ma oltre a questo gran parte della storiografia protestante, apertamente anticattolica, prendendo spunto dalla situazione di estrema corruzione in cui versava la Chiesa cattolica è arrivata persino a considerare la figura di Lutero come un modello universale di moralità e giustizia.

Il tradizionale peccato originale della Chiesa cattolica, che avrebbe costituito la fatidica goccia che fece traboccare il vaso, fu il traffico e la vendita delle indulgenze. Una pratica nata all’alba del secondo millennio dell’era cristiana, nell’ambito della particolare spiritualità del pellegrinaggio armato in Terrasanta delle crociate, che si protrasse a lungo non senza indubitabili degenerazioni ed esagerazioni. Ma nel XVI secolo tale pratica aveva ancora una sua grande e riconosciuta importanza e costituiva un elemento fondamentale per il popolo che vi vedeva una possibilità concreta di ottenere quella salvezza e quella vita eterna come uniche ricchezze in una vita disgraziata caratterizzata solo da povertà e vessazioni. Infatti la lotta contro le indulgenze è stato un elemento ingigantito dalla propaganda protestante, in realtà a Lutero non interessava tanto la corruzione legata a tale traffico, ma il fatto che il sistema delle indulgenze, in quanto opere buone compiute allo scopo di abbreviare la permanenza in Purgatorio, cozzava con la sua teologia basata sulla sola Grazia di Dio come salvezza per l’uomo (F. Agnoli, “Indagine sul Cristianesimo” Piemme, Milano, 2010, pag.235).

Ma, allora, il successo della Riforma luterana a cosa è stato dovuto? Fu davvero causata dalla moralità del messaggio e dalla forza della nuova teologia luterana? Da un’analisi appena più attenta dei fatti si rileva subito che Lutero non fu quel celebrato moralizzatore che le varie propagande di parte hanno voluto presentarci, bensì un riformatore, o meglio un rivoluzionario, della dottrina cristiana. La sua lotta non fu affatto indirizzata contro la corruzione, anche perché sarebbe un controsenso lottare per le opere buone in cui Lutero non vedeva alcuna santità. Egli, infatti, soleva dire: “pecca fortiter, sed crede fortius” (Pecca fortemente, ma credi ancor più fortemente). Molto più realisticamente, quella della lotta alla corruzione fu un pretesto per dar forza alle sue argomentazioni che rimangono essenzialmente dottrinarie, una teologia rivoluzionaria che, con le assurdità sulla predestinazione ed il servo arbitrio, non ebbe alcun appeal presso la classe colta del tempo.

Per spiegare come sia stata possibile l’affermazione e diffusione della Riforma occorre, quindi, cercare altrove e porsi innanzitutto una domanda: come mai il messaggio di Lutero attecchì solo in Germania e non negli altri Stati europei come la Francia o la Spagna? Per rispondere a questa domanda occorre dare uno sguardo alla situazione politica e sociale dell’Europa, e specialmente della Germania, del XVI secolo. Diversamente da quanto avvenne nelle grandi monarchie europee occidentali, l’Impero di Carlo V non raggiunse mai, in Germania, la stessa compattezza e solidità. Il particolarismo dei principi e delle città libere aveva impedito che si formasse un solido potere monarchico centrale capace di controllare efficacemente l’influenza della Chiesa, la quale manteneva le sue prerogative sulle nomine ecclesiastiche e l’attività dei suoi tribunali. Nei grandi e compatti Stati nazionali dell’Europa occidentale i rapporti con la Chiesa erano regolati da concordati, cioè accordi diretti tra Stato e Chiesa, che avevano assicurato ai vari sovrani il diritto di intervenire nell’assegnazione dei benefici ecclesiastici e l’ottenimento di vasti poteri d’esazione fiscale sui beni della Chiesa. Nulla di tutto questo in Germania, dove l’imperatore mancava di un potere forte che fosse in grado di opporsi all’indipendenza della politica papale, così come testimoniato dalle continue lagnanze contro le pretese romane che i principi, con i “Gravamina nationis Germanicae“, sottoponevano all’imperatore. E’ evidente che questa situazione costituì un ambiente favorevole per l’accoglimento delle tesi di Lutero che spingevano verso la distruzione della legittimazione della Chiesa di Roma e ciò provocò una loro rapida diffusione anche al di fuori degli ambienti conventuali ed universitari.

Molto probabilmente Lutero, agli inizi, non pensava di dover causare una frattura del mondo cristiano, ma solo di riformare dall’interno la dottrina della Chiesa che secondo lui aveva smarrito la missione assegnatale da Cristo. Ma capì ben presto che le sue argomentazioni non erano sufficienti a determinare gli effetti desiderati e per evitare di veder fallire la sua Riforma maturò la ferma intenzione di cercare la protezione della nobiltà tedesca. Quando nel gennaio del 1520 con la bolla papale Exurge Domine fu minacciato di scomunica, Lutero ruppe ogni indugio e contraddicendo il suo ideale di libertà ed indipendenza della dimensione religiosa, scrisse una lunga lettera: “Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca” con la quale si rivolse alle autorità civili affinché si facessero esecutrici del suo disegno di riforma religiosa. Oltre che ai principi territoriali Lutero invitò tutta la piccola nobiltà della Germania, inquieta e turbolenta, alla lotta contro la Chiesa di Roma ed ad attaccare il papa, definito come l’Anticristo in persona. Dal princìpio originario dell’eliminazione di qualsiasi Chiesa mediatrice tra Dio e gli uomini, era stato compiuto quel passo fondamentale per la formazione di una nuova Chiesa alleata dei principi e totalmente sottomessa allo Stato. I nobili, ovviamente, diedero volentieri il loro appoggio in quanto, lungi dall’essere convinti dalle tesi religiose di Lutero, intravidero la possibilità di staccarsi dalla Chiesa, per poi sequestrarne i beni, e dall’imperatore. Così, quando nel 1521 Lutero si presentò alla dieta di Worms presieduta dal ventenne imperatore Carlo V per rispondere del suo operato, non era più un oscuro frate ribelle alla mercé degli accusatori, ma una personaggio divenuto importante e rappresentante delle istanze politico-religiose contro Roma di molti principi tedeschi. Lo stesso potente duca di Sassonia, Federico il saggio, lo prese sotto la sua ala protettrice.

Anche se ai più la rivoluzione teologica luterana rimaneva una speculazione incomprensibile, diverso effetto fecero l’incitamento al libero esame e all’autodeterminazione. Negi anni venti del XVI secolo tali incitamenti s’intrecciarono con le tensioni sociali e politiche latenti dell’impero e ciò determinò le condizioni per lo scoppio della disastrosa rivolta dei contadini del 1524 capeggiata dal teologo Thomas Muentzer, allievo di Lutero, solo che in questo caso il potere da combattere non era quello della Chiesa di Roma, ma quello dei principi. Lutero non ebbe alcun dubbio e nel 1525 pubblicò l’Esortazione alla pace a proposito dei dodici articoli dei contadini di Svevia, uno scritto con cui dimostrava di aver scelto ormai definitivamente l’alleanza coi principi tedeschi, egli prese le distanze dal movimento contadino, ed esortò la nobiltà tedesca alla soppressione delle “bande brigantesche ed assassine dei contadini” (A. Giardina – G. Sabatucci – V. Vidotto. Il Manuale dal 1350 al 1650, Bari, 2002; p. 224). Lutero si rese finalmente conto di quali sovvertimenti dell’ordine sociale poteva portare la libera ed incontrollata interpretazione della Parola di Dio e il pericoloso vuoto di potere creato dalla dissoluzione degli ordinamenti ecclesiastici. La sua riforma divenne sempre più una “Riforma dei Principi” e negli Stati territoriali tedeschi si formò un nuovo apparato amministrativo controllato dai sovrani che si appropriarono delle competenze che prima erano dei vescovi.

Nel 1531 venne costituita a Smalcalda, una città della regione tedesca della Turingia, da Filippo I d’Assia e Giovanni Federico, elettore di Sassonia, una lega dei principi, ormai divenuti protestanti, che giurarono di difendersi reciprocamente se i loro territori fossero stati attaccati dall’imperatore Carlo V. La lega confiscò i terreni della Chiesa, espulse i vescovi e i principi cattolici e aiutò a diffondere la Riforma nella Germania settentrionale. Si era così compiuto l’abbraccio definitivo della Protestantesimo con il potere politico. Diventare protestanti significò, così, poter abolire la Chiesa cattolica dalle proprie terre, incamerarne i beni, fondare una propria Chiesa “nazionale” ed acquisire sia il potere temporale e quello spirituale. Ben presto, non solo i principi tedeschi, ma anche i re di Danimarca, Svezia e Inghilterra sfruttarono questa possibilità e il Protestantesimo si diffuse in tutta Europa.


Bibliografia:

J. Lortz, E. Iserloh, “Storia della Riforma” Il Mulino, Bologna 1974;
G. Alberigo, “La Riforma protestante” Garzanti, Milano, 1959;
L. Febvre, “Martin Lutero” Laterza, Bari, 1969;
A. Terranova, “La Riforma come origine della modernità” Il Cerchio, Rimini 2000;
O. Hermann Pesch, "Martin Lutero. Introduzione storica e teologica" (Biblioteca di teologia contemporanea 135), Brescia, Queriniana, 2007;
F. Agnoli, “Indagine sul Cristianesimo” Piemme, Milano, 2010;

martedì 15 dicembre 2015

Parte IV- La fede dei primi cristiani

Certamente le più sconcertanti e, sicuramente, perniciose falsità che tale letteratura “trash” propugna con incredibile leggerezza sono quelle che riguardano la figura di Gesù e la Chiesa Cattolica. Finché la fantasia si scatena in congetture assurde su calici, Templari e Merovingi, la cosa può anche risultare divertente, ma il sentimento anticristiano e, specialmente, anticattolico, tipico di questi libri, non è certamente rispettoso della dignità e della sensibilità dei credenti. Eppure viviamo nell’epoca del “politically correct” in cui il rispetto del credo e delle idee altrui è diventato una importante esigenza, specie nel campo delle fedi religiose. Da ogni dove si sono prontamente levate pesanti critiche per le pubblicazioni delle ormai note vignette satiriche su Maometto, i libri della Fallaci sono costante oggetto delle reprimende di sociologi e studiosi, perfino l’innocente pellicola “The Passion” di Mel Gibson ha scatenato un generalizzato coro di proteste da parte delle comunità ebraiche. Nessuno, oggi, si sognerebbe di scrivere libri o produrre films in cui si riporterebbero fatti e documenti per delegittimare le ortodossie islamiche, ebraiche o buddiste. Eppure, nell’indifferenza generale, questo avviene costantemente nei riguardi dei cristiani e della Chiesa Cattolica. Come mai? Uno storico e sociologo americano, P. Jenkins, ha giustamente osservato che il successo di questo mediocre prodotto letterario è solo un’altra prova del fatto che l’anti-cattolicesimo è “l’ultimo pregiudizio accettabile” (titolo di un libro di Jenkins: The New Anti-Catholicism. The Last Acceptable Prejudice, Oxford University Press, New York 2003).

Ne “Il Codice da Vinci”, al capitolo 55, tra le pagine 273 e 274, D. Brown, attraverso il personaggio dello “storico” Teabing, afferma che Gesù, in realtà, era visto dai suoi seguaci come un profeta mortale, non come il figlio di Dio. La divinizzazione di Gesù si affermò solo a tempi di Costantino e costituì essenzialmente una questione politica. Alla Chiesa Cattolica occorreva un Cristo-Messia per aumentare il suo potere. A pagina 277 troviamo la sconcertante frase: «.. quasi tutto ciò che i nostri padri ci hanno insegnato a proposito di Cristo è falso». Secondo D. Brown, quindi, i cristiani non hanno mai creduto che Gesù fosse di natura divina, fu solo al Concilio di Nicea, convocato apposta dall’imperatore Costantino, che la Chiesa impose questo falso dogma. 

Ancor più sconcertante è la “versione storica” di L. Gardner in “La linea di sangue del Santo Graal”. In questo libro delirante si possono leggere dei “minestroni” pseudo-storici pazzeschi! Tra le pagine 152 e 154, L. Gardner, afferma che i primi veri seguaci di Cristo furono, in realtà, i Nazarei, gli unici che, sotto la guida dei Desposyni, cioè dei discendenti di Gesù, avrebbero conservato i veri insegnamenti del Cristo. Rifiutavano il dogma romano della Trinità, consideravano Gesù semplicemente un uomo, erede della stirpe davidica, e non accettavano l’idea che Maria, la madre di Gesù, fosse fisicamente vergine. Questi Nazarei si sarebbero diffusi in tutto il medio oriente fino in Mesopotamia e furono tra i più puri tra i veri cristiani. La Chiesa di Roma, invece, a differenza di questi Nazarei, non aveva una base ebraica, ma una mescolanza idolatra con il culto del sole ed altri culti misteriosi. 

Tali affermazioni sono del tutto false, non hanno alcuna base storica. Le comunità dei primissimi cristiani (I sec.) nacquero attorno alla predicazione apostolica. Innanzitutto in Palestina, luogo d’origine degli apostoli, sotto la guida di Pietro e successivamente di Giacomo (detto il minore), vescovo di Gerusalemme fino al 62 d.C., e parallelamente in Anatolia, Grecia e Roma, in seguito alle predicazioni di Paolo, ancora Pietro, e Barnaba. Fu la testimonianza degli apostoli a costituire la base della fede di tali comunità. Da queste nacque quella tradizione orale e scritta che contribuì a comporre i vangeli più diffusi e conosciuti che, soprattutto per questo, furono ritenuti canonici, cioè ispirati. Questa nascente Chiesa era avversata fortemente, dapprima dall’autorità ebraica e successivamente anche da quella romana, cosicché gli apostoli e moltissimi discepoli dovettero subire, per la loro testimonianza, il martirio. L’affermazione di L. Gardner, cioè che i Nazarei fossero “i più puri tra i veri cristiani”, è una solenne stupidaggine. Il termine “Nazareni” è uno dei tanti che veniva usato per indicare la primissima comunità giudeo-cristiana guidata dagli apostoli. Molto probabilmente L. Gardner, facendo confusione, fa riferimento ad una delle tante sette giudeo-cristiane, come ad esempio gli Ebioniti, allora esistenti in Palestina. Infatti pur accettando la figura di Gesù come quella del Messia, nato dalla Vergine, queste sette, non abbandonarono le prescrizioni della legge mosaica. Erano una sorta di millenaristi, cioè predicavano molte proibizioni nell’attesa escatologica. Vivevano perlopiù vicino al fiume Giordano facendo voto di castità e astinenza, osservavano il sabato e la pratica della circoncisione. Con la distruzione di Gerusalemme, operata da Tito nel 70 d.C, e successivamente con l’annientamento definitivo d’Israele da parte degli eserciti di Adriano (135 d.C.), che impose il divieto assoluto della circoncisione e di frequentare la zona dove sorgeva il tempio, queste sette cominciarono progressivamente a sparire. Tale fenomeno fu favorito anche dal successore di Adriano, Antonino Pio, che pur permettendo agli ebrei il ritorno alla circoncisione, mantenne i divieti per i conversi e tutti coloro che non vivevano in seno alla comunità ebraica ufficiale, proprio allo scopo di isolare Israele. Tutto ciò favorì le concorrenti comunità dei seguaci di Gesù, che, come ci informa Atti 11, 26, Plinio il Giovane nella sua lettera a Traiano del 112 d.C., Ignazio di Antiochia nella sua lettera ai Magnesiaci, ecc…, erano, a quel tempo, già denominati “cristiani”. La Chiesa fondata dagli apostoli, invece, seppur perseguitata ferocemente, si espandeva professando gli insegnamenti di Gesù. 

Nei secoli precedenti il concilio di Nicea (325 d.C.), la natura sia divina che umana di Gesù era universalmente riconosciuta. Abbiamo documenti, sia cristiani che extracristiani, e numerose testimonianze archeologiche che attestano questa fede fin dai primissimi anni dopo la morte e la risurrezione di Gesù. 

Tra i documenti cristiani più importanti c’è, naturalmente, il Nuovo Testamento. In esso il vangelo di Marco è universalmente riconosciuto come il più antico essendo stato composto a Roma attorno all’anno 65 d.C. Vi è riportata la predicazione e la testimonianza di Pietro, di cui Marco fu discepolo prediletto. In questo vangelo la figura di Gesù è subito presentata all’altezza di Dio. In alcuni episodi sono state riconosciute dagli esegeti come sicuramente autentiche alcune parole di Gesù. Questo è il caso, ad esempio, di Mc 2, 5-7 dove Gesù rimette i peccati, oppure di Mc 2, 27-28 e 3, 1-5 dove Gesù si proclama Signore del sabato. Queste prerogative che Gesù si riserva, sono di esclusiva pertinenza di Dio. Tutto ciò indigna a tal punto i giudei che, sebbene divisi tra loro, concordano immediatamente sulla necessità della sua soppressione: “I farisei, usciti, subito tennero una riunione con gli erodiani contro di lui su come farlo morire” (Mc 3, 6). Gli erodiani erano i giudei che parteggiavano per Erode Antipa, amico dei Romani, e quindi acerrimi nemici politici del resto di Israele. 

Altra eclatante testimonianza della fede in Gesù come Dio, delle primissime comunità cristiane, sono i testi Kerygmatici, sempre nel Nuovo Testamento, cioè che riportano l’originario annuncio della fede da parte degli apostoli, ossia che Gesù è il Signore, morto e risorto. Questi scritti testimoniano che all’origine del cristianesimo esiste subito una fede indiscussa in Gesù il Nazareno come Dio. Quelli più rappresentativi sono riportati nelle lettere apostoliche come, ad esempio, la prima lettera ai tessalonicesi che, essendo stata scritta da Paolo attorno all’anno 50 d.C., è ritenuta il più antico documento scritto del cristianesimo. Paolo, riprendendo la tradizione orale e la liturgia cristiana già formate, testimonia come la fede nel Cristo ritenuto il Signore fosse già presente a pochissimi anni dalla sua scomparsa. Nella lettera ai romani, scritta da Paolo nel 57 d.C. ai cristiani di Roma, nel cap. 10, 9 si legge: “Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha resuscitato dai morti, sarai salvo”. Oppure la lettera ai filippesi, scritta sempre da Paolo attorno al 52 d.C. ai cristiani di Filippi, al cap. 2, 5-11, dove troviamo un vero e proprio trattato cristologico: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio lo ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre”. Ancora, nella prima lettera di Giovanni apostolo, scritta attorno all’anno 100 d.C. ad Efeso, l’autore dichiara esplicitamente (5, 20-21): “Sappiamo anche che il Figlio di Dio è venuto e ci ha dato l’intelligenza per conoscere il vero Dio. E noi siamo nel vero Dio e nel Figlio suo Gesù Cristo: egli è il vero Dio e la vita eterna. Figlioli, guardatevi dai falsi dei!”. 


La tradizione cristiana ha, quindi, da sempre ritenuto Gesù come “il Signore”, cioè Dio, e questa fede è anche confermata da testimonianze extracristiane che, proprio per questo, sono al di sopra di ogni sospetto. Questi documenti provengono da contemporanei ambienti pagani ed ebraici. Tra quelli pagani, molto numerosi, abbiamo scritti di filosofi, retori e storici che riportano preziose informazioni sulla vita e le usanze delle prime comunità cristiane. Tra questi, ad esempio, molto interessante è un brano del “Discorso vero” (circa 180 d.C.) di Celso, un filosofo vissuto nel II secolo, riportato da Origene nel suo “Contro Celso” (metà del III secolo d.C.): «T’inventasti [rivolto a Cristo] la nascita da una vergine: in realtà tu sei originario da un villaggio della Galilea e figlio di una donna di quel villaggio [...] costei, convinta di adulterio, fu scacciata dallo sposo, falegname di mestiere […] ripudiata dal marito e vergognosamente randagia, ti generò quale figlio furtivo. Spinto dalla povertà andasti a lavorare in Egitto, dove venisti a conoscenza di quelle facoltà segrete per quali gli Egiziani vanno famosi. Quindi tornasti, orgoglioso di quelle facoltà e grazie ad esse ti proclamasti Dio» (Origene, “Contro Celso”, 1,28). Celso era un implacabile oppositori dei cristiani e cercava in tutti i modi di dimostrare che le loro credenze fossero false. In questo brano Celso ci riporta dettagliatamente ciò che i cristiani del II secolo credevano, cioè la divinità del Cristo proclamata dai vangeli. Altro documento significativo è costituito da un brano dell’opera “La morte del pellegrino” del retore Luciano, nato a Samosata intorno al 120 d.C. e morto dopo il 180 d.C., attivo nell'età degli Antonini. In essa, egli descrive i primi cristiani nel seguente modo: «I Cristiani tutt'oggi adorano un uomo, l'insigne personaggio che introdusse i loro nuovi riti, e che per questo fu crocifisso […] Ad essi fu insegnato dal loro originale maestro che essi sono tutti fratelli, dal momento della loro conversione, e [perciò] negano gli dèi della Grecia, e adorano il saggio crocifisso, vivendo secondo le sue leggi» (Luciano, De morte Per., 11-13). Da questa testimonianza si può notare come i primi cristiani abbandonavano il culto pagano degli dei per adorare Gesù, ritenendolo il solo Dio esistente. Sicuramente, però, la testimonianza extracristiana più storicamente importante è quella che troviamo in una lettera del carteggio ufficiale che intercorse tra Plinio il Giovane e l’imperatore Traiano. Allievo del famoso retore Quintiliano, Plinio era il governatore romano della Bitinia e del Ponto, in Asia Minore, durante gli anni 111-113 d.C. In questa lettera, chiedendo consiglio a Traiano sul modo più appropriato di condurre le procedure legali contro le persone accusate di essere cristiane, Plinio scrive: «Affermavano inoltre che tutta la loro colpa o errore consisteva nell’esser soliti riunirsi in un giorno stabilito prima dell’alba e intonare a cori alterni un inno a Cristo come se fosse un dio» (cfr. Plinio, Epistole X,96). Quindi abbiamo una eccezionale testimonianza della liturgia che caratterizzava i riti della chiesa degli inizi, dove Gesù era adorato come Dio. 

Anche in ambiente ebraico abbiamo diversi riferimenti a Gesù ed alla sua pretesa di essere Dio. Per gli ebrei, ovviamente, questa era una bestemmia gravissima, infatti si legge nel Talmud J: «Se qualcuno ti dice: “Io sono Dio”, egli è un mentitore; “Io sono il figlio dell’uomo”, alla fine dovrà pentirsene; “Io ascenderò al cielo”, egli ha detto questo, ma non lo compirà» (Talmud J Taanit 2,1). Questo passo può essere riferito solo a Gesù, infatti solo Lui, in Israele, si pose sullo stesso piano di Dio attribuendosi l’appellativo di figlio dell’uomo. Nel Talmud di Babilonia, una raccolta di scritti rabbinici compilata verso il 70 – 200 d.C., troviamo un passo dove addirittura viene confermato il riferimento evangelico alla crocifissione ed alle opere straordinarie che compì Gesù, spiegandole come stregonerie: «Alla vigilia della Pasqua [ebraica], Yeshu fu appeso. Per quaranta giorni prima dell'esecuzione, un araldo [...] gridava: "Egli sta per essere lapidato perché ha praticato la stregoneria e ha condotto Israele verso l'apostasia» (Talmud Babilonese, vol. III, 43a/281; 43b). 

Anche l’archeologia ha confermato questa fede in Gesù come Dio delle prime comunità cristiane. Ad esempio, nel 1968, a Cafarnao, la città dove, secondo i vangeli, viveva Pietro, è stata scoperta, sotto il pavimento di una chiesa a lui dedicata fin dal V secolo, proprio la casa dove abitò l’apostolo. Le pareti di questa casa erano piene di graffiti, in greco, latino, siriano ed aramaico, con invocazioni a Gesù e a Pietro per chiederne la protezione. Considerata dagli archeologi la più antica chiesa cristiana conosciuta, questi resti testimoniano che, nei primi due secoli, non solo era presente il culto di Gesù, ma già si era formata la tradizione della venerazione dei suoi discepoli. Altro graffito famoso è quello ritrovato sul colle Palatino a Roma (nella foto accanto). Si tratta di un disegno di età Severiana (193-211 d.C.), ora conservato nell’antiquarium, raffigurante la caricatura di un uomo crocifisso con testa d’asino, con ai suoi piedi un altro uomo in atto di adorazione, il tutto accompagnato dalla scritta: “Alessameno adora il suo Dio”. E’ proprio l’inconcepibile, per un pagano, usanza dei cristiani di adorare un uomo crocifisso che viene messa alla berlina. Per dileggio l’uomo crocifisso viene raffigurato con la testa d’asino.

Ne “La linea di sangue del santo Graal” L. Gardner afferma che Gesù era una sorta di messia dinastico che, a capo di una nuova comunità ebraica, i “Nazirei”, avrebbe liberato Israele dagli occupanti romani. Secondo la sua teoria l’appellativo di “Nazareno”, che i vangeli attribuiscono a Gesù, non riguarderebbe le sue origini, bensì sarebbe un riferimento criptato alla sua missione in qualità di capo supremo. A pag. 41 del suo libro afferma che sebbene le scritture chiamano Gesù “nazareno” e che Luca 2, 39 lasci intendere che la famiglia di Giuseppe era originaria di Nazareth, questo non vuol dire per forza che Gesù provenisse da Nazareth. Secondo L. Gardner il termine nazireno (o nazareno) era strettamente settario e non aveva nulla a che fare con la città. A prova di ciò cita Atti 24, 5, dove Paolo davanti al governatore di Cesarea viene accusato di sedizione religiosa: “Poiché abbiamo trovato quest’uomo essere una peste e commuovere sedizione fra tutti i giudei per il mondo, ed essere il capo della setta dei nazareni…”. 

Una sbalorditiva dimostrazione di ignoranza totale. Pretendendo di saperne più dell’evangelista, L. Gardner cita Atti 24, 5 dandone un’interpretazione completamente sbagliata, anzi l’intera lettura del capitolo 24 degli Atti suggerisce conclusioni esattamente opposte. Al versetto 14, Paolo, chiamato a giustificarsi, dice: «Ammetto invece che adoro il Dio dei miei padri, secondo quella dottrina che essi stessi chiamano setta, credendo in tutto ciò che è conforme alla Legge e sta scritto nei Profeti». Quindi è Paolo stesso che ci dice chi sono i nazareni o nazirei: era il nome con cui venivano identificati i cristiani, ovviamente ancora giudaizzanti, cioè coloro che come Paolo professavano gli insegnamenti di Gesù, ma che erano considerati membri di una setta giudaica eretica. Questo termine restò limitato all’ambiente semitico per poi mutare in “cristiani” nel mondo greco-romano (Atti 11, 26). 

mercoledì 9 dicembre 2015

Medioevo, buio o luce?

Molte volte, quando c’è da commentare un episodio di violenza o una situazione di arretratezza culturale, sentiamo l’espressione: “Siamo rimasti nel Medioevo!”. Nell’immaginario collettivo il Medioevo è spesso considerato un’epoca oscura, violenta, malvagia, arretrata culturalmente e, ovviamente, essendo stato, in Europa, un periodo storico caratterizzato dalla presenza di una società essenzialmente cristiana, la colpa di tale arretratezza è generalmente imputata alla Chiesa.



Come è noto, viene tradizionalmente indicato con il termine “Medioevo” il periodo compreso tra la caduta dell'impero romano d'Occidente (476 d.C.) e la scoperta dell'America da parte di Cristoforo Colombo (1492). Un periodo lunghissimo, ben dieci secoli, che vengono generalmente liquidati come un’epoca di ignoranza, il periodo dei “secoli bui”, tutto dovuto all’imperversare della Chiesa oscurantista. Ma è possibile pensare che su quasi mille anni di storia si possa avere solo un generico giudizio negativo e che responsabilità sia tutta della Chiesa e del cristianesimo? Ovviamente non è così, ormai è chiaro che gran parte di ciò che pensiamo del passato ci è stato trasmesso da una storiografia falsa, ideologica, che ha mistificato i fatti e modellato le fonti in modo da inculcare agli ignari una visione anticristiana ed anticlericale della storia. Il giudizio negativo che abbiamo del Medioevo è sostanzialmente un’invenzione storiografica dell’illuminismo. 

Appena ci si rivolge agli studiosi seri, specialisti del settore, che fanno dello studio della storia la loro professione, la musica cambia considerevolmente. Tra gli studiosi del Medioevo più noti ed affidabili abbiamo quelli della cosiddetta “scuola” francese, ritenuta molto attendibile ed apprezzata a livello internazionale, come, ad esempio, la storica Régine Pernoud, venuta purtroppo a mancare nel 1998. Conservatrice del Museo di Reims e degli archivi nazionali di Parigi al Museo della Storia di Francia e fondatrice e direttrice del Centro Giovanna d'Arco a Orléans, la Pernoud attraverso i suoi saggi ha operato una vera e propria rivalutazione del Medioevo basata su una ricerca di dati obiettivi, da opporre a quei luoghi comuni che la tradizione illuminista ci ha lasciato. Anche lei ha dovuto fare i conti con questa storiografia falsa, con la difficoltà di reperire testi veritieri e approfonditi sui quali studiare il Medioevo, in genere nelle enciclopedie sono spesso contenute informazioni contraddittorie ed insignificanti e le opere di erudizione non sono facilmente raggiungibili. Ha affermato la storica francese: “Dalle scuole elementari all’università — quasi senza eccezioni — si testimonia sempre lo stesso disprezzo per l’insieme del millennio che va dal V al XV secolo. È lo stesso disprezzo che manifestano i media in tutta tranquillità. Giornali, televisione e, appunto, il cinema, presentano invariabilmente gli stessi schemi: ignoranza, tirannia, oscurantismo, come è possibile che si sia ancora legati, nella nostra epoca scientifica, a nozioni così semplicistiche e infantili su tutto ciò che riguarda il Medio Evo? Non se ne discute nemmeno più, si accettano allegramente enormi assurdità considerate come fatti acquisiti. È così, e non c’è bisogno di dimostrazione. Tutto questo i medievalisti lo sanno, ma si guardano bene dal ripeterlo: non sarebbe serio!” (R. Pernoud “Medioevo, un secolare pregiudizio” Editore Bompiani 2001).

Tra i più grandi specialisti della storia del Medioevo c’è sicuramente il francese Jacques Le Goff, uno dei massimi esperti della storia e della sociologia del Medioevo, sfortunatamente morto l’anno scorso. Forte della sua autorevolezza universalmente riconosciuta, questo storico ha sempre avuto il coraggio di andare contro il pensiero dominante. In occasione della pubblicazione del suo ultimo libro ha spiegato, in un’intervista al Messaggero, che “come dice il nome, il Medio Evo è stato sempre considerato come un periodo di passaggio, di transito tra l’Antichità e la Modernità, ma passaggio significa soprattutto sviluppo e progresso. Nel Medio Evo progressi straordinari ci sono stati in tutti i campi, con i mulini a vento e ad acqua, l’aratro di ferro, la rotazione delle culture da biennale a triennale. Ma non c’è nessuna rottura fondamentale tra Medioevo e Rinascimento, tra il 14esimo e il 17esimo secolo. Ci sono cambiamenti che non modificano in modo sostanziale la natura della vita dell’umanità. L’economia resta rurale, ciclicamente caratterizzata da carestie. Nonostante la rottura – importante – tra cristianesimo tradizionale e riformato, è sempre il cristianesimo a determinare una visione omogenea e religiosa di un’eternità definita da Dio”.

Per Le Goff, quindi, il Medioevo è lungi dall’essere quel periodo oscuro che avrebbe determinato una sorta di “notte” dell’umanità, ma anzi è da considerarsi come un interrotto cammino dell’uomo verso il progresso. I cosiddetti “secoli bui” e il “Rinascimento” sono in pratica una invenzione storiografica dell’illuminismo, lungo il Medioevo il progresso, umanista e scientifico, non ha avuto alcun rallentamento ed è stato per merito della visione cristiana della realtà che tutto ciò è stato possibile. D’accordo con Le Goff è la stragrande maggioranza degli storici che conosce bene i guasti della falsa storiografia illuminista e laicista. Lo storico italiano Alessandro Barbero, ordinario di Storia Medievale presso l’Università degli Studi del Piemonte Orientale, che nel confutare l’ennesima invenzione riguardante il Medioevo ha recentemente dichiarato che “nel nostro immaginario è troppo forte il piacere di credere che in passato c’è stata un’epoca tenebrosa, ma che noi ne siamo usciti, e siamo migliori di quelli che vivevano allora”. Della stessa opinione lo storico Paolo Nanni, ricercatore di Storia medioevale presso l’Università di Firenze, che per valorizzare il lascito di Le Goff lo ha definito come “un Medioevo sottratto alla riduttiva definizione di età frapposta fra altre epoche: l’età di mezzo, quella dei “secoli bui”». 

Il Medioevo fu, in realtà, un periodo di fecondo progresso ispirato e determinato dall’appartenenza alla Chiesa cristiana di tutti i popoli europei, al punto che la storica R. Pernoud propose di chiamare questo periodo come quello della “Cristianità romano germanica”. Fu l’epoca propria della Cristianità, che ispirò tutte le manifestazioni culturali, sociali e politiche. Basta pensare agli "archetipi della cultura europea" che sono il santo, il re, il cavaliere, temi che ci hanno lasciato una preziosa eredità. Nel Medioevo l’arte espresse la bellezza del sacro e della fede con le sue incredibili cattedrali, l’amore per la cultura classica nel lavoro dei monasteri Benedettini e degli altri ordini che recuperarono preziosi manoscritti dalla devastazione barbarica. Nel Medioevo la parità sociale portata dal cristianesimo fece nascere le prime scuole, nate a ridosso dei monasteri, frequentate da tutti, anche dai più poveri. La nascita dell'Università dove in nome della ricerca della verità ogni indagine era permessa perché studio del creato e lotta contro le superstizioni. In questo periodo nacquero le grandi opere filosofiche, nate anche per contrastare l'insorgere delle eresie, l’arte del romanzo, dei poemi epici il cui contenuto, grazie ai grandi pellegrinaggi della cristianità, circolavano liberamente in tutta Europa. Le grandi innovazioni tecniche nel campo dell’agricoltura, dell’ingegneria, della cartografia, ecc. troppo spesso sottaciute dall'ignoranza del nostro tempo.

Ma non solo progressi materiali ed intellettuali, ma anche sociali. Basta pensare alla condizione della donna nel Medioevo che acquisì per la prima volta l’uguaglianza sociale. Scrisse Le Goff nel 2006: “Io ritengo, che l’idea che la donna sia uguale all’uomo abbia determinato la concezione cristiana della donna e abbia influenzato la visione e l’atteggiamento della Chiesa medievale nei suoi confronti" (J. Le Goff, “Un lungo Medioevo”, Dedalo 2006, p. 92). In un’intervista al quotidiano l’”Avvenire” Le Goff dichiarò: “Credo che tale rispetto della donna sia una delle grandi innovazioni del cristianesimo; pensiamo alla riflessione che la chiesa ha condotto sulla coppia e sul matrimonio, fino a giungere alla creazione di tale istituzione, ora tipicamente cristiana, formalizzata dal quarto concilio Lateranense nel 1215, che ne fa un atto pubblico (da cui la pubblicazione dei bandi) e, cosa fondamentale, un atto che non può realizzarsi se non con il pieno accordo dei due adulti coinvolti”. Giova ricordare che Jacques Le Goff non era cristiano, bensì totalmente agnostico. Nel Medioevo la donna poteva tranquillamente dirigere monasteri, frequentare università, assumere cariche pubbliche, praticare la medicina ed essere incoronata regina alla stessa stregua del re, tutte prerogative che progressivamente perderà con la secolarizzazione della società. 

Ma, allora, come è stato possibile un tale misconoscimento, una manipolazione così perversa della storia? Tutto ebbe inizio con la nuova epoca del Rinascimento che operò, progressivamente, una rottura con i secoli precedenti, con la sua visione cristiana della società, per abbracciare sempre più l’idea di un mondo lontano da Dio. A questo si aggiunse la Riforma protestante, con il suo odio anticattolico, che demonizzò il passato bollando tutto come oscurantismo cattolico, finché l’opera non si completò con l’illuminismo che in nome della “ragione”, intesa come capacità astratta e superba di misurare la realtà, condannò in modo definitivo il Medioevo definendolo un’epoca buia a dispetto di ogni tradizione, specie se religiosa, raggiungendo, così, il risultato di impedire la vera conoscenza di quel periodo in cui fu proprio la Chiesa l'unica a difendere la ragione. Purtroppo attualmente la nostra cultura, quasi totalmente scristianizzata, è soggiogata da questa visione falsa e mistificatrice. 

Bibliografia

M. Tangheroni "La leggenda nera sul Medioevo", articolo apparso sul n. 34,35 (1978) di Cristianità.
R. Pernoud “Medioevo, un secolare pregiudizio” Editore Bompiani 2001
R. Pernoud “Luce del Medioevo” Editore Gribaudi 2002
J. Le Goff, “Un lungo Medioevo”, Dedalo 2006

lunedì 30 novembre 2015

L'ottusità laicista contro il Natale


Fatalmente, come ogni anno, all'approssimarsi della ricorrenza del Natale, si registra l'ennesima intemerata del laicista di turno che se la prende con la festa più cara alla tradizione cattolica ed amata da tutti i bambini. "Bisogna fare un passo in avanti per il rispetto dei bambini non cattolici", ha sentenziato il preside di una scuola di Rozzano (MI), Marco Parma (nella foto), che ha abolito una rappresentazione natalizia sostituendola con una non ben identificata "festa dell'inverno".

La notizia è di qualche giorno fa ed ha alzato, come era prevedibile, un gran polverone. Il sindaco Barbara Agogliati di Rozzano che annuncia di chiedere una reintegrazione della rappresentazione religiosa, i soliti partiti politici che non perdono occasione per strumentalizzare l'accaduto, la patetica dimostrazione dei professori della scuola che si sono schierati a favore del preside, la protesta dei genitori dei studenti, ecc., insomma una grande confusione che non fa altro che mostrare il livello deprimente del "dialogo", in Italia, tra credenti e non. Ma la reazione più interessante è stata senza dubbio quella dei genitori della minoranza dei bambini islamici, i quali hanno candidamente dichiarato che la rappresentazione natalizia non li avrebbe minimamente offesi. Questa vicenda fa tornare alla mente il Shakespeariano "tanto rumore per nulla", visto che il solerte prodigarsi del nostro preside, eroe del laicismo, nel non offendere i bambini islamici con turpi rappresentazioni di bambini appena nati, è stato del tutto inutile. Possibile una tale ignoranza da parte di un qualificato tutore della cultura? Come è possibile che il nostro preside non sappia che Gesù è venerato anche dall'Islam e che è considerato un santo profeta dal Corano? Si dirà: ma il preside ha voluto tutelare il sentimento dei bambini con genitori atei. Poveri bambini, violentati ed offesi da turpi melodie inneggianti alla pace e alla letizia portate da un bambino appena nato. Veramente una mostruosa violenza. 

La scuola dev'essere laica non laicista, la soppressione della memoria del Natale non è rispetto e libertà, ma un rinnegamento delle radici cristiane sulle quali si basano i valori fondanti la nostra società. L’origine cristiana della nostra società è una evidenza storica. Se ignoriamo queste radici cesseremo di essere una civiltà e perderemo la nostra identità. Questa evidenza vale per chiunque, non solo per il cristiano, ma anche per il laico. Celebrare il Natale di Cristo non ha senso solo per i cristiani, ma anche per i laici, significa celebrare i valori di uguaglianza, amore, pace, rispetto, perdono che sono diventati patrimonio comune solo con la venuta di Cristo. La celebrazione delle feste cristiane da parte di una società laica come la nostra non è un'offesa o l'imposizione di una fede, ma il riconoscerci tutti insieme negli stessi valori che hanno creato la nostra convivenza. 

La sensazione forte, invece, è quella dell'assalto continuo da parte del laicismo contro la religione, un attacco veemente, che non ha oggettive motivazioni, ma solo quelle dettate dal proprio personale odio verso Cristo e la Chiesa.

giovedì 26 novembre 2015

Marcionismo, la negazione della radice giudaica

Con questa eresia torniamo molto indietro nel tempo per trattare un tema di eccezionale importanza riguardante la formazione del canone delle scritture cristiane e la competizione esistente nei primi due secoli dell’era cristiana tra la Chiesa originaria, apostolica, giudeo-cristiana e le ramificazioni del messaggio cristiano che costantemente si originavano tra i gentili, cioè le popolazione pagane non ebree. 

Il marcionismo nasce da Marcione, figlio di un vescovo di Sinope nella provincia del Ponto, agli inizi del II secolo. Consacrò la sua vita all’ascetismo e alla castità e questo gli valse la nomina a vescovo. Forse suggestionato dalla grande ribellione ebraica guidata dal condottiero Bar Kokheba, repressa dall’imperatore Adriano nel 135, Marcione coltivò da subito una certa avversione verso l’ebraismo al punto di arrivare a rinnegare le origini ebraiche del Cristianesimo. Secondo il suo pensiero gli insegnamenti di Cristo sono incompatibili con le azioni del Dio dell'Antico Testamento, infatti si convinse che solo nei discorsi di Paolo di Tarso era possibile riconoscere il vero Dio, fino ad allora sconosciuto, fautore di amore e pietà. Maturò, così, la convinzione che tutta la tradizione ebraica e l'Antico Testamento identificava un Dio malvagio e progenitore del male, capace unicamente di applicare punizioni severe per ogni mancanza da parte dell'uomo, che ha creato pieno di difetti e capace degli atti più efferati. Viceversa riteneva che il Dio predicato da Gesù fosse un Dio straniero, quello a cui si sarebbe riferito Paolo parlando con gli ateniesi nell'agorà, che essendo un Dio d'amore, pace e misericordia, doveva per forza trattarsi una divinità diversa da quella d'Israele. In pratica Marcione non riusciva a vedere un’identità tra il Dio d’Israele e quello di Gesù, arrivando così a considerarli due divinità opposte. Con ogni probabilità Marcione fu molto influenzato dalla teologia dualistica tipica delle correnti dello gnosticismo docetista che si andavano sviluppando in quel periodo. Ebbe, infatti, contatti con Cerdone, un famoso gnostico siriano, che incontrò a Roma mentre predicava. 

Nonostante questi aspetti comuni con lo gnosticismo, Marcione non può essere considerato un vero e proprio gnostico in quanto per lui la salvezza non derivava dalla “gnosi”, cioè da una conoscenza esoterica, ma era un dono della Grazia divina. Per Marcione il Cristianesimo era costituito dalla sola Nuova Alleanza, quindi l'Antico Testamento, con la sua rozzezza e l'implacabilità del suo Dio, risultando inconcepibile, doveva pertanto essere accantonato.

Proprio per questo Marcione prese a considerare vere ed autentiche solo le scritture cristiane che non avevano nulla a che fare con l’ebraismo, tenne il solo vangelo di Luca, che si rivolgeva ai pagani, e dieci lettere di Paolo, realizzando così un suo personale canone totalmente svincolato dalla tradizione ebraica. Nel 140 Marcione si recò a Roma per vedersi riconosciuta la sua dottrina ed il suo personale canone delle scritture, ma venne subito aspramente criticato e scomunicato. Tra i suoi detrattori annoveriamo innanzitutto Ireneo di Lione (Contro le eresie), Policarpo (Seconda lettera ai Filippesi) e Tertulliano (Contro Marcione). Successivamente molti altri vescovi, Dioniso di Corinto, Teofilo di Antiochia, ecc. condannano le tesi di Marcione, praticamente tutta la Chiesa cristiana si ribellò all’idea di rinnegare le sue origini giudaiche, con buona pace di una larga storiografia moderna convinta di un acceso antisemitismo della Chiesa cristiana primitiva.

L’errore principale di Marcione sta, appunto, nel rinnegare l’origine giudaica del Cristianesimo perché la Chiesa di Cristo, essendo “messianica”, non si sostituisce a Israele, ma vi si innesta proprio secondo la dottrina di Paolo che viene totalmente fraintesa. Paolo, infatti, nella lettera ai Romani (cap. 11) paragona l'ulivo buono ad Israele sul quale sono stati innestati i rami d'ulivo selvatico che sono i pagani. Così dirà ai cristiani di Roma: “Non menar tanto vanto; non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te" (Rom. 11, 18). 

E’, quindi, da rigettare l’idea di Marcione del ripudio dell’Antico Testamento. Gesù disse a due dei suoi: "O insensati e tardi di cuore a credere a tutte le cose che i profeti hanno dette! Non bisognava egli che il Cristo soffrisse queste cose ed entrasse quindi nella sua gloria?" (Luca 24:25,26). Poi Luca continua a dirci: "E dissero l'uno all'altro: Non ardeva il cuor nostro in noi mentre egli ci parlava per la via, mentre ci spiegava le Scritture?" (Luca 24:32). Gesù è il Messia profetizzato dalle Scritture antiche, è solo in virtù delle promesse di Dio al popolo di Israele che si è avuta l’incarnazione del Figlio. Gesù, infatti, dichiarò apertamente: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento” (Mt 5, 17-20).

All’epoca di Marcione nessuna autorità aveva ancora stabilito con precisione quali scritti dovevano essere considerati Parola di Dio ispirata, ma sappiamo che presso le comunità cristiane di allora, durante le celebrazioni liturgiche domenicali, oltre alle memorie degli apostoli, cioè i vangeli, venivano letti anche gli scritti ebraici a testimonianza del fatto che l’Antico Testamento era tenuto in gran conto. Ce ne da prova Giustino di Nablus, che compose le sue Apologie proprio verso la metà del II secolo: “Nel giorno chiamato “del Sole” ci si raduna tutti insieme, abitanti delle città o delle campagne, e si leggono le memorie degli Apostoli o gli scritti dei Profeti” (Apol. I, 67, 3). L’iniziativa di Marcione ebbe l’effetto di suscitare la questione riguardante la selezione dei testi da ritenere sacri e finì per accelerare il processo di formazione del canone. Un importante documento risalente all’VIII secolo d.C., il Frammento Muratoriano, fa riferimento ad una prima lista ufficiale approvata da Pio, vescovo di Roma, morto nel 157, e considera canonici i vangeli di Matteo, Marco Luca e Giovanni, gli Atti degli Apostoli e tredici lettere paoline, non dimenticando di condannare come falsi gli scritti proposti dai Marcioniti. Solo vent’anni dopo Ireneo di Lione ribadirà che il vangelo è certamente unico, ma tetramorfo e Tertulliano, nel suo Adversus Marcionem, riconoscerà come ispirati i quattro vangeli canonici proprio in opposizione a Marcione. 


Bibliografia

J.N.D. Kelly, “Il pensiero cristiano delle origini”, il Mulino, Bologna, 1972.
R.M.Grant, “Gnosticismo e Cristianesimo primitivo”, il Mulino, Bologna 1976;
E. Norelli "La funzione di Paolo nel pensiero di Marcione" G. Ory, Marcion, Parigi 1980;
Bart Ehrman, "I Cristianesimi perduti" Carrocci editore, 2003

mercoledì 18 novembre 2015

Parte III – La fede d’Israele

Nel “capolavoro” di L. Gardner, il suo libro “La linea di sangue del santo Graal”, viene riportata una “rivelazione” sconcertante. Secondo gli studi di un certo Ahmed Osman, egittologo nativo del Cairo, il biblico patriarca Mosé deve essere identificato nientemeno che con Akhenaton, (si! proprio lui il faraone “eretico”, Amenofi IV). L’originalità del monoteismo ebraico, in realtà, non esiste. La fede ebraica in un unico Dio deriva direttamente dal culto al dio Aton, il disco solare, introdotto in Egitto proprio dal faraone eretico. Tutto ciò sarebbe provato dal fatto che proprio in quanto adoratore dell’unica divinità, Akhenaton fu bandito dall’Egitto, in analogia esatta a quanto successe al Mosè del racconto biblico. Inoltre il nome stesso di “Mosè”, si legge a pag. 20 del suo libro, deriva dall’egiziano e significa “figlio di…” o “erede” . Con queste argomentazioni L. Gardner vuole dimostrare che esisterebbe un collegamento tra la fede d’Israele ed i culti egiziani, specialmente quelli tributati alla dea Iside reputata la dea madre universale. 

Anche D. Brown, ne “Il Codice da Vinci”, allude ad un culto al “femminino sacro” esistente presso gli ebrei lasciandosi andare ad affermazioni sconcertanti sulla storia della religione ebraica: nel tempio di Salomone si adoravano Jehovah e la sua controparte femminile, la Shekinah, tramite i servigi delle prostitute sacre. Secondo D. Brown questa usanza sarebbe ben attestata dalla stessa Bibbia in 1 Re 14, 24. Lo stesso Salomone, il figlio di Davide, deriverebbe la sua saggezza dal fatto che permise il culto degli altri dei oltre a Javhè, così come indicato, ad esempio, in 1 Re 11, 4-10. 

Sempre ne “Il Codice da Vinci”, al capitolo 74, D. Brown arriva ad affermare che l’antica tradizione ebraica comprendeva rituali sessuali, cioè lo Hieros gamos, il matrimonio sacro, e che ciò avveniva nientemeno che nel sancta sanctorum del tempio di Salomone (cioè nella parte più interna e sacra, n.d.r.). Gli uomini che cercavano la completezza spirituale si recavano al tempio dove trovavano le prostitute sacre, le hierodule, e congiungendosi con loro avevano l’esperienza del divino. Secondo D. Brown il culto della dea dominava universalmente il paganesimo precristiano e il suo rito centrale, lo Hieros gamos, testimonia l’antica prevalenza della sessualità sacra. 

Affermazioni incredibili, Akhenaton e Mosé la stessa persona ed ebrei regolarmente intenti a congiungimenti carnali all’interno del tempio di Salomone. Stento a credere che si possa solo pensare ad enormità del genere. Affermazioni simili dimostrano una grossa ignoranza sia della storia ebraica che di quella egiziana. 

L’affermazione secondo la quale Mosè e Akhenaton sarebbero stati la stessa persona è completamente campata in aria. Infatti, mentre il faraone eretico Amenofi IV, che mutò il nome in Akhenaton, fu indubbiamente una figura storica, con Mosè abbiamo a che fare con una figura che di storico non ha nulla, ma che appartiene alla dimensione del ricordo. Non si sono mai trovate tracce dell’esistenza storica del grande legislatore ebraico. Egli è solamente una figura del ricordo che accoglie in sé tutte le tradizioni riguardanti la legislazione, la liberazione e il monoteismo (Jan Assmann “Mosè l’egizio”, Adelphi, Cusano-Milano 2007). Molto più seriamente si può affermare che l’idea di un’identità o dipendenza del monoteismo ebraico da quello di Akhenaton ha sempre affascinato gli studiosi. Nel corso dei secoli, a partire dall’Aigyptiaka, cioè una storia d’Egitto, di Manetone del III sec. a.C, riportata da Giuseppe Flavio, passando per il cosiddetto “Esodo” di Ecateo di Abdea, gli scritti di Lisimaco e Cheremone, l’ebreo Artapano, lo storico romano Tacito fino a Strabone che considerò Mosè un personaggio interamente egizio e che tanto influenzò le tormentate ricerche di Sigmund Freud nel suo “L’uomo Mosè e la religione monoteista” del 1939. Siamo di fronte, quindi, ad una questione vecchia quanto il mondo e non certamente ad una sorprendente novità svelataci dai vari Gardner e soci. Ma tutte queste ricerche sembrano proprio dipendere dagli scritti di Manetone, così come ce li ha tramandati Giuseppe Flavio, i cui intenti apologetici sull’antichità delle origini dell’ebraismo inficiano di molto la loro autenticità. In pratica si tratta solo di speculazioni che di storico hanno poco o nulla, ma partono unicamente dall’unico dato determinato dalle somiglianze, la credenza in un dio unico, l’anaiconicità, tra il culto professato da Akhenaton ed il monoteismo ebraico. 

Nel XIV sec. a.C. Akhenaton fece una rivoluzione introducendo il culto di Aton, cioè del disco solare, principalmente per abbattere il potere del clero tebano basato principalmente sul culto di Amon. Infatti la monarchia egiziana era caduta sotto la forte influenza dei sacerdoti del dio Amon. Questa divinità aveva una grande importanza ed aveva il ruolo di protettrice della regalità. Il suo tempio principale, situato a Karnak, nel corso dei secoli, aveva ricevuto in dono molte terre e svariate proprietà fino a diventare quasi uno stato nello stato capace di determinare la successione al trono d’Egitto. La rivoluzione di Amenofi IV, che cambiò il nome in Akhenaton cioè “amato da Aton”, fu quindi un tentativo di recuperare l’antica autorità sacra dei sovrani. Il monoteismo di Akhenaton, comunque, sebbene riservava ad Aton il culto principale, non rinnegava il complesso politeismo egizio. Gli studiosi, infatti, preferiscono parlare di enoteismo, cioè un culto in cui Aton non era l’unico dio, ma quello supremo. Akhenaton stesso, pur cambiando nome, non rinunciò al titolo di “Horo, figlio di Rà” che lo rendeva, egli stesso, una divinità. Egli non soppresse nessuno della miriadi di culti presenti in Egitto, ma volle solo porsi come unico intermediario tra l’umanità e la divinità estromettendo, così, il clero tebano. 

Ma anche tralasciando questi aspetti “politici” ad un’analisi più approfondita ci si accorge che esiste una profonda differenza tra i due “monoteismi”. La dottrina di Akhenaton è più una teoria cosmologica che una religione vera e propria. Aton, il dio di Akhenaton, è il Sole cosmico che splende sui buoni e sui cattivi e non formula alcun tipo di giudizio morale. Non si dà pena per il buono e il cattivo, il povero e il ricco, il giusto e l’ingiusto. Lui è il Sole, che splende per tutti. Qui sta la differenza fondamentale tra il monoteismo di Akhenaton e quello biblico, legato al nome di Mosè. L’una è fondata sul Sole, l’altra sulla Legge. La novità più sconvolgente del Dio d’Israele è, appunto, la sua “moralità”. Gli ebrei hanno sempre creduto in un Dio che pone in cima ai suoi pensieri la cura per la santità e la giustizia. In Levitico 19 il comandamento della santità rivolto agli uomini si fonda sul convincimento che Dio stesso è santo: “Il Signore parlo a Mosè dicendo: «Parla a tutta l’assemblea d’Israele, dì loro: siate santi, perché Io, il Signore, vostro Dio, sono santo»”. In Isaia 5, è Dio stesso giustizia: “Il santo Dio si mostra santo nella giustizia” e, in quanto tale, comanda agli uomini di essere giusti: “Smettete di fare il male, imparate a fare il bene. Ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso” (V. Messori “Ipotesi su Gesù”. Pag.70. Editrice Sei.). Questa “moralità” rende il Dio d’Israele un vero e proprio mistero, in quanto qualifica un’interpretazione teologica totalmente aliena a tutte le culture dell’epoca (Y. Kaufmann, "The Religion of Israel from its Beginnings", in Jahrbuch fùr biblische theologie, IV, Neukirken 1986 - 1990) e, quindi, anche a quella di Akhenaton.

Anche il riferimento all’origine egizia del nome di Mosé, che riporta Gardner, non prova un bel nulla. Infatti, anche se è sicuramente certa tale origine, Mosé, cioè “Mosis”, letteralmente significa: “figlio di …”, nella lingua egiziana tale termine appare sempre in combinazione con un nome di divinità: ah-, ka-, ra’-, tut-, cioè “Ahmosis”, “Kamosis”, “Ramosis”, “Tutmosis”, ossia “figlio di Tut”, “figlio di Ra” e così via. Quindi l’uso del solo suffisso come nome non può ascriversi ad una tradizione egiziana, bensì ad una interpolazione ebraica. Tra l’altro è ben nota presso gli ebrei la presenza di numerosi nomi di origine egiziana a testimonianza del loro soggiorno in Egitto. Ne sono esempio i nomi tipicamente egiziani dei due indegni figli del profeta Eli, Hofni e Pineas.

L’affermazione secondo la quale il culto ebraico nel tempio di Gerusalemme prevedesse regolari pratiche sessuali è una scempiaggine di proporzioni gigantesche. Una ridicolaggine del genere significa non avere alcuna idea di cos’è l’Antico Testamento, di cosa c’è scritto e di quale siano le caratteristiche della fede ebraica in Javhè. 

C’è da chiedersi come abbia potuto, D. Brown, spararla così grossa. Probabilmente avrà pensato di vedere nell’operato di Salomone l’istituzione di un nuovo culto, ma non è affatto così. In 1 Re 11, 4-10 non c’è alcuna giustificazione per culti pagani introdotti da Salomone, bensì una netta condanna. Inequivocabili sono i versetti 9 e 10 del cap. 11: “E l’Eterno s’indignò contro Salomone, perché il cuor di lui s’era alienato dall’Eterno, dall’Iddio d’Israele, che gli era apparso due volte, e gli aveva ordinato, a questo proposito, di non andar dietro ad altri dei”. Non è esistito alcun culto ufficiale della “dea” e nessuna prostituzione sacra nel Tempio di Gerusalemme, la visione di D. Brown è da considerare solo una versione distorta della corruzione del Tempio dopo Salomone (1 Re 14:24 e 2 Re 23:4-15). Nella condotta di Salomone, in 1 Re 11, 4-10, più che la volontà di introdurre i culti pagani in Israele, va vista una politica estera incentrata sul buon vicinato con le altre nazioni. I matrimoni di Salomone con donne straniere servivano a mantenere gli equilibri politici della regione e a favorire i rapporti commerciali. Nonostante ciò la Bibbia mette sempre all’indice il peccato di contaminazione, tanto che Dio predice a Salomone che a causa del suo peccato il suo regno andrà perduto (1 Re 11, 13). Il territorio in cui Israele si instaurò dopo l’esodo dall’Egitto (XII sec a.C.), ossia la terra di Canaan, era abitato da popolazioni caratterizzate dal culto della fecondità come dono divino. Il dio principale, Baal, era visto come la sorgente della fertilità ed il suo culto prevedeva rapporti sessuali sacri con sacerdotesse e sacerdoti a lui consacrati. Israele ha sempre avuto in orrore tali riti e questa avversione è già attestata nell’antichissima Genesi. Nel nono capitolo di questo libro della Bibbia viene individuato un capostipite di questi popoli nel nipote del patriarca Noé, di nome Canaan. Egli è il figlio di Cam, uno dei tre figli di Noé, ed è coinvolto in una vicenda oscura dal significato simbolico. Si legge in Gen 9, 21-22: «(Noé) si ubriacò e giacque scoperto all’interno della sua tenda. Ora, Cam, padre di Canaan, vide il padre scoperto e raccontò la cosa ai due fratelli, Sem e Iafet, che stavano fuori». Successivamente i tre figli ricomposero il padre scoperto senza guardarne la nudità. Smaltita la sbronza, Noé, stranamente, non se la prende con il figlio Cam, ma con il nipote Canaan, lanciandogli una maledizione: «Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà dei suoi fratelli!» (Gen 9, 25). La Bibbia, quindi, denuncia l’oscura colpa di “vedere la nudità” del padre come una condanna delle trasgressione sessuali tipiche dei culti idolatri cananei che insidiavano la fede d’Israele. Ma questo è solo il punto di partenza. Tutta la legge mosaica, la Thorà (cioè i primi cinque libri della Bibbia, il cosiddetto Pentateuco, n.d.r.), si scaglia continuamente contro ogni forma di culto straniero, specialmente quelli che prevedono riti a carattere sessuale e magico. In Esodo 22, 17-19; Levitico 19, 19 e 20, 6 vengono espressamente condannati i riti pagani basati sulla magia. Sono considerati un abominio i costumi sessuali dei popoli pagani, i rapporti sessuali presso gli ebrei erano confinati solo all’interno del matrimonio, ogni altra usanza è proibita dalla legge (Levitico 15, 16-18; Lev. 18; Lev. 20, 6-21; Deuteronomio 22, 22-28 e Deut. 22, 5). Particolarmente condannati sono i congiungimenti sessuali rituali. In Numeri 25, 1-9 si assiste ad un vero e proprio bagno di sangue in quanto l’applicazione della legge mosaica comporta l’uccisione di tutti gli israeliti e le prostitute sacre madianite che si sono congiunti sessualmente secondo il culto del dio Baal di Peor. La prostituzione sacra presso Israele è sempre stata condannata come una orribile contaminazione della fede originaria da parte dei culti cananei. Troviamo in Deut. 23, 18-19: «Non vi sarà alcuna donna dedita alla prostituzione sacra tra le figlie d’Israele, né vi sarà alcun uomo dedito alla prostituzione sacra tra i figli d’Israele. Non porterai nella casa del Signore tuo Dio il dono di una prostituta né il salario di un cane, qualunque voto tu abbia fatto, poiché tutti e due sono abominio per il Signore tuo Dio». Il termine “cane” indica in modo dispregiativo l’uomo prostituito. Si noti che è condannato anche solo il gesto di pietà di portare al tempio il dono di coloro che si sono macchiati del peccato della prostituzione sacra. Alla luce di tutto ciò è facile comprendere come il riferimento a 1 Re 14, 24 non prova affatto che la prostituzione sacra facesse parte del culto d’Israele, ma, al contrario, ci dimostra che era una deviazione dalla legge. Infatti Roboamo, figlio di Salomone, caduto nel paganesimo fu punito da Dio lasciando Israele in balia del faraone Sisach (XXII dinastia). Successivamente, tutte le deviazioni pagane verranno eliminate con la grande riforma religiosa operata dal re Giosia (2 Re 23, 1-25).

Mi sembra inutile continuare, credo che tutte queste evidenze dimostrino ampiamente che i vari L. Gardner, D. Brown e soci si siano inventato tutto.

giovedì 5 novembre 2015

Le persecuzioni dei cristiani, mito o storia?

Le continue violenze che i cristiani subiscono in ogni parte del mondo riportano alla mente i primi secoli dell’era cristiana quando le primitive comunità dovettero subire l’aggressiva intolleranza popolare e la dura persecuzione che diversi imperatori scatenarono contro di loro. Oggi, come allora, la fede in Cristo è ritenuta assurda e condannata in modo che i cristiani sono costretti a testimoniare la loro fede attraverso la terribile esperienza del martirio.  

Agli inizi dell’era cristiana le persecuzioni provennero unicamente dal Sinedrio di Gerusalemme, le autorità giudaiche si accanivano contro i cristiani accusandoli di empietà e bestemmia. Scoppiato un incendio a Roma nel 64 d.C. l’imperatore Nerone ne accusò i cristiani e organizzò la prima persecuzione, si trattava di trovare dei responsabili, così fu accusata la comunità cristiana una minoranza facilmente vulnerabile ed invisa alla popolazione. Da quell’episodio tutta una serie di uccisioni: nel 107 il vescovo di Antiochia Ignazio viene martirizzato a Roma, nel 155 viene ucciso il vescovo di Smirne, Policarpo, nel 177 vengono uccisi i martiri di Lione, nel 203 a Cartagine il martirio di Felicita e Perpetua e così via. Si trattò all’inizio di violenze ed uccisioni estemporanee per poi divenire organizzate e sistematiche nelle grandi persecuzioni di Massimino (235 d.C.), di Decio (250d.C.) e di Diocleziano e Galerio (303 d.C.).

Nonostante tali fatti siano largamente accettati dagli storici, ogni tanto saltano fuori delle analisi pseudostoriche che attaccano il cristianesimo per denigrarne i caratteri storici e trasformarli in miti. Si tratta di operazioni che affondano le loro radici nella falsa storiografia ottocentesca nata dalla corrente anticattolica dell’illuminismo. Nella fattispecie alcuni pseudostorici ridimensionano la portata delle persecuzioni che subirono i cristiani e le relega a semplici scaramucce tra l’autorità imperiale e bande di agitatori e sobillatori. E’ questo il caso, ad esempio, del libro “Il mito della persecuzione: come la prima cristianità ha inventato una storia di martirio” della prof.ssa Candida Moss ordinaria di Nuovo Testamento e Cristianesimo antico dell'Università di Notre Dame, Indiana, USA. Scrive la professoressa nel suo libro:

La storia tradizionale del martirio cristiano è errata. I cristiani non erano costantemente perseguitati, diffamati o presi di mira dai romani. Davvero pochi cristiani morirono, e quando morivano, venivano spesso condannati per quelle che nel mondo moderno chiameremo ragioni politiche. C'è una differenza tra persecuzione e processo. Un persecutore prende di mira rappresentanti di un gruppo specifico per una punizione immeritata meramente a causa della loro partecipazione in quel gruppo. Un individuo è processato perché quella persona ha infranto la legge […] convalidata e continua persecuzione. Gli striduli lamenti degli antichi cristiani che dicono che i romani erano sempre in agguato là fuori per catturarli erano   esagerati” (Candida Moss ”The Myth of Persecution: How Early Christians Invented a Story of Martyrdom” New York: HarperOne, 2013, pag. 159).

Indubbiamente le persecuzioni che subirono i cristiani nei primi tre secoli non furono continue, ai vari pogrom si alternarono lunghi periodi di tranquillità. Ciò non toglie, però, che anche in tali periodi i cristiani erano sempre potenzialmente perseguibili. Ciò è provato da molti documenti che testimoniano come i cristiani fossero costantemente in pericolo per la loro fede anche in periodi lontani dagli anni delle persecuzioni ufficiali. Il rescritto dell’imperatore Adriano a Minucio Fundano, proconsole d’Asia (Eusebio, HE IV, 9; Giustino, Apologia I, 68) con il quale, nel 122 d.C., si prescrive l’azione giudiziaria contro i cristiani solo sulla base di prove certe, quello dell’imperatore Traiano al governatore del Ponto e Bitinia, Plinio il giovane, del 112 d.C., (Plinio, Ep. X, 7) dello stesso tenore, oppure la raccomandazione, del 140 d.C., alle città greche, dell’imperatore Antonino Pio, di non fabbricare “storie” riguardo ai cristiani (Eusebio, HE IV, 26, 10) testimoniano come i cristiani fossero costantemente oggetto di denunce ed accuse da parte della popolazione pagana dell’impero. E queste reazioni degli imperatori provano come tali denunce non riguardarono presunte infrazioni della legge, ma partivano dal diffuso pregiudizio e dall’odio esistente allora verso i cristiani. E’ il famoso storico Tacito a darci prova di tale odio. Nei suoi Annali, scritti attorno al 112 d.C., descrive i cristiani (Ann. XV, 44) come invisi al popolo “a causa delle loro nefandezze”, e che la loro fede era una “esiziale superstitio”, vengono definiti “rei” e “meritevoli di pene severissime”, sono accusati di “odio del genere umano”. Ma non solo, molti altri li accusavano di costumi depravati, di omicidi rituali, di incesti. Illuminante, in tal senso, è la testimonianza di Minucio Felice, un apologista del II secolo, che nel suo Octavius riporta un’orazione contro i cristiani di un avvocato e retore, Frontone, nella quale vengono elencati tutta una serie di nefandezze, tra cui incesti ed omicidi rituali, di cui sarebbero responsabili i cristiani (Octavius VIII,4-IX,7). Quest’odio, talmente diffuso e radicato, giustifica ciò che, in quegli stessi anni, il cristiano Giustino di Nablus, rivolgendosi ad un altro accusatore del cristianesimo, il filosofo cinico Crescente, ebbe a dire: “Veramente è ingiusto ritenere per filosofo colui che, a nostro danno, rende pubblicamente testimonianza di cose che non conosce, dicendo che i Cristiani sono atei e scellerati; e dice ciò per ricavarne grazia e favore presso la folla, che resta ingannata” (II Apologia VIII).         
Proprio per quest’odio, nel 64 d.C., in occasione del grande incendio di Roma, l’imperatore Nerone ha gioco facile nell’incolpare i reietti cristiani, dando inizio così alla stagione delle persecuzioni anche in Occidente, dopo quelle che i primissimi cristiani subirono da parte della autorità ebraiche in Oriente. Ma, anche qui, secondo Candida Moss, esistono delle difficoltà, infatti scrive:

Nerone addossò la colpa e inflisse le più squisite torture su coloro che erano odiati per i loro abomini (pag. 138). Ciò non significa che questa storia sia completamente degna di fede. Bisogna esercitare qualche cautela quando si arriva a trattare Tacito. Gli Annali di Tacito risalgono agli anni 115-120, almeno 50 anni dopo gli eventi che descrive. Il suo uso del termine ''Cristiano'' è in qualche modo anacronistico. È altamente improbabile, al tempo in cui accadde il Grande Incendio, che qualcuno riconosca i seguaci di Gesù usando il nome ''Cristiani'' fino, come minimo, giusto alla fine del primo secolo.  Se i seguaci di Gesù non furono neppure identificati come cristiani, è altamente improbabile che i cristiani fossero ben noti e malvisti abbastanza da poterli Nerone selezionarli come capro espiatorio. Appare più probabile che la discussione di Tacito degli eventi di Roma intorno al tempo dell'Incendio rifletta la sua personale situazione intorno al 115. Tacito è evidenza della crescente animosità popolare verso i cristiani nel secondo secolo, ma egli non offre evidenza della loro persecuzione nel primo” (pag. 139).

Tesi, a mio avviso, insostenibile. Infatti non è storicamente possibile affermare che non siano esistiti cristiani a Roma nel 64 d.C. Innanzitutto abbiamo la lettera di Paolo di Tarso ai cristiani di Roma, comunemente datata al 57 d.C., che testimonia la presenza nella capitale dell’impero di un’importante comunità “nota in tutto il mondo per la loro grande fede” (Rm 1, 8). A conferma dell’esistenza di una comunità cristiana a Roma nel 64 d.C. anche la notizia presente negli Atti degli Apostoli (18, 1–2) che riguarda una coppia di coniugi giudeo-cristiani, Aquila e Priscilla, profughi provenienti da Roma in quanto espulsi dall’imperatore Claudio ed incontrati da Paolo di Tarso a Corinto. Notizia, tra l’altro, confermata dallo storico Svetonio (Vita di Claudio 25, 4). La Moss dice che Tacito è anacronistico a chiamare i cristiani in tal modo riferendosi al grande incendio di Roma del 64 d.C., ma non è solo lui a farlo. Anche Svetonio riporta di una persecuzione subita dai cristiani: “Furono puniti i cristiani, un gruppo di persone dedite a una superstizione nuova e malefica” (Nero 16, 2). Anche Svetonio si confonde? Improbabile. Svetonio ricoprì, fino all’anno 122 d.C., l’importante incarico di archivista (procurator a studiis), segretario (ab epistulis) e bibliotecario (a bibliothecis) dell’imperatore Adriano, ed anche Tacito ricoprì ruoli molto importanti. Fu pretore, oratore, consul suffectus e proconsole in Asia e per la sua posizione politica, aveva accesso agli acta senatus, ovvero i verbali delle sedute del senato romano, e gli acta diurna populi Romani, ovvero gli atti governativi e le notizie su ciò che accadeva giorno per giorno. Appare estremamente improbabile che personalità del genere potessero incorrere in errori storici così grossolani.

A differenza delle comunità ebraiche sparse in tutto l’impero, sempre turbolente e di difficile gestione da parte delle autorità romane, come conferma la notizia di Svetonio (Nero 16, 2), i cristiani viceversa sono descritti dalle fonti come gente pacifica e rispettosa delle leggi. Ad esempio Eusebio ci narra dei controlli fatti eseguire dall’imperatore Domiziano sulle prime comunità giudeocristiane che accertano solo la presenza di pacifici contadini (Eusebio, H. E. III, 19.20, 1-6), le indagini del governatore della Bitinia, Plinio il giovane, che testimoniano gli usi e i costumi assolutamente pacifici dei cristiani (Epist. X, 96, 1-9), le notizie di pacifismo e virtù dei cristiani in Galeno (De sentent. Pol. Plat), Luciano di Samosata (De morte Per. XI-XIII), ecc. I cristiani non intendono affatto sovvertire l’ordine costituito: Paolo raccomanda la fedeltà alle istituzioni civili (Rm 13, 1) e che si preghi affinché i governanti possano agire con giustizia (1 Tm 2, 1-2). Ma, allora, da dove tutto l’odio che i cristiani si sono attirati fino ad arrivare alle persecuzioni sistematiche? Il fatto è che i cristiani non possedevano alcuno statuto giuridico all’interno dell’impero, agli occhi dei pagani costituivano un culto sconosciuto, straniero che non corrisponde alla tradizione degli antenati e che non ha ricevuto pubblico riconoscimento. Infatti fin dall’epoca antica presso i romani vigeva la prescrizione, attribuita al re Numa e riportata da Cicerone, che: “Nessuno abbia proprie divinità nuove o straniere, non riconosciute pubblicamente” (De legibus II, 8, 19). Gli ebrei erano, invece, dispensati dal culto ufficiale per il rispetto dovuto alla loro religione. Tacito scrive, infatti: “I riti dei Giudei, ad esempio, per quanto diversi da quelli di tutti gli altri popoli, vanno difesi per la loro antichità” (Historiae, V, 5, 1). Tutto ciò spiega il fatto che gli ebrei non furono mai perseguitati per la loro religione, ma solo perché perturbatori dell’ordine costituito.


L’atteggiamento dei cristiani, invece, fu sempre caratterizzato da un lealismo verso l’impero e da ostilità verso le pratiche religiose da esso imposte. Ciò procurò loro, nei primi secoli, disprezzo e qualche persecuzione, ma col passare del tempo, l’indebolimento e lo sfaldamento della società pagana, la minaccia dei nemici alle frontiere, indusse gli imperatori a puntare sulla religione degli antenati come elemento di coesione nazionale, quindi iniziarono le grandi persecuzioni sistematiche. Ma fu un tentativo disperato che fallì miseramente perché anacronistico, il cristianesimo aveva già fatto conoscere l’umanità e la giustizia sociale di cui la società pagana era drammaticamente carente e nessuno era ormai disposto a tornare indietro.



Bibliografia

M. Sordi “Il cristianesimo e Roma” Cappelli, Bologna, 1965;
S. Prete “Cristianesimo e impero romano” Patron, Bologna 1974;
A. Amore “I martiri di Roma” Antonianum, Roma, 1975;
J. Moreau “La persecuzione del cristianesimo nell’impero romano” Paideia, Brescia, 1977;
G. Jossa “I cristiani e l'impero romano da Tiberio a Marco Aurelio” Carocci, Roma, 2000;
A. Sacchi “Lettera ai Romani” Città Nuova 2000;
A. Pitta “Lettera ai Romani” Edizioni Paoline 2001;
M. Sordi “I cristiani e l’impero romano” Editoriale Jaca Book Spa, Milano 2004.
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