mercoledì 28 ottobre 2015

Finalmente un freno alla violenza laicista

Finalmente una buona notizia per tutti coloro che hanno a cuore la legalità, il rispetto della democrazia e dei valori fondamentali della persona umana. Il Consiglio di Stato, con una sentenza ineccepibile, ha fatto giustizia della follia laicista di sindaci e tribunali amministrativi ribadendo che i prefetti, su indicazione del ministro, hanno piena e legittima facoltà di cancellare le sciagurate trascrizioni, operate da alcuni sindaci, dei matrimoni tra persone dello stesso sesso celebrati all'estero.

Il Consiglio di Stato non ha fatto altro che garantire l'applicazione della legge vigente, eppure tutto ciò non ha mancato di suscitare l'immancabile protesta delle forze laiciste e delle associazioni gay che hanno parlato di sentenza retrograda, contro il diritto delle persone. Ovviamente non c'è da stupirsi di una posizione simile, vista l'abitudine di tali soggetti a calpestare le leggi e a farsi beffe della legalità, ma ciò che fa restare letteralmente allibiti è l'assurda opera di denigrazione compiuta dagli avvocati di "Avvocatura per i diritti Lgbt, Rete Lenford" nei confronti di un giudice del Consiglio, il Dott. Carlo Deodato, che, per il solo fatto di essere di fede cattolica, è stato accusato di non avere la necessaria serenità di giudizio e ritenuto incompatibile con l'ufficio svolto. Una polemica veramente triste e senza senso, la sentenza del Consiglio è frutto di un provvedimento assunto collegialmente dall'intera Corte e non da un solo giudice e si è trattato di una sentenza che ha solo preso atto del fatto che in Italia non esiste il matrimonio tra persone dello stesso sesso ed è quindi impossibile una loro trascrizione. I sindaci che lo avevano fatto, non ne avevano assolutamente l'autorità, in una democrazia non è possibile scavalcare il legislatore. Ma, sembra, che per i laicisti questi siano concetti ben poco assimilati. 

Bisogna, purtroppo, constatare che questa aggressione nei confronti del giudice Deodato è semplicemente vergognosa e costituisce l'ennesimo episodio della violenza e della prevaricazione laicista presente in Italia. 

giovedì 15 ottobre 2015

Parte II - Le origini

Per poter costruire una base alla sua teoria della chiesa alternativa a quella Cattolica retta dai discendenti di Gesù, D. Brown, riprendendo teorie già propugnate da M. Baigent, R. Leigth, H. Lincoln e L. Gardner, si spinge addirittura alle origini della fede ebraica insinuando che tutto l’Antico Testamento è pervaso esotericamente da riferimenti al culto della dea. L’ambiente in cui vivevano gli Israeliti, la terra di Canaan, era dominata dai culti pagani dei vari popoli che l’abitavano. Questi erano caratterizzati dall’adorazione di divinità di entrambi i sessi. Dall’unione del dio maschio (sole, cielo) con il dio femmina (terra, mare) scaturiva la vita. Secondo L. Gardner, a seguito dell’influenza di tali culti, la Bibbia, in Genesi 1, 1-2, attribuisce la creazione all’unione tra il dio maschio Geova (lo spirito di Dio che aleggiava sulle acque) e la sua sposa Matronit (le acque). In questo passo sarebbe chiaramente indicato che le acque non vengono create, ma già preesistevano. A conferma di ciò D. Brown afferma che il nome stesso di Dio, il sacro tetragramma YHWH, deriva da “Jehovah”, androgina unione fisica tra il maschile “Jah” e il nome preebraico di Eva, “Havah”. Anche per L. Gardner, in “La linea di sangue del santo Graal”, il sacro tetragramma, non è altro che un esoterico riferimento ai quattro membri della famiglia celeste: “Y” rappresentava El, cioè il padre, “H” Asherah, la madre, “W” sarebbe He, il figlio e “H” era la figlia, Anath. La storia di Adamo ed Eva sarebbe, in realtà un retaggio dei culti babilonesi, solo che la tradizione ebraica ha estromesso la figura di Lilith, prima moglie di Adamo, la quale reputandosi uguale a lui, viene scartata per la più sottomessa Eva. A parere di L. Gardner, Lilith ha sempre rappresentato, in tutta la storia fino ai giorni nostri, l’etica fondamentale dell’opportunità femminile. 

Bel fuoco di fila di imprecisioni storiche e sciocchezze varie. Cominciamo col dire che la questione riguardante la supposta influenza pagana nella formazione dell’Antico Testamento non è una novità, ma è stato ed è argomento tra i più trattati nello studio della Scrittura e, sicuramente, con ben altra serietà e competenza che non quella mostrata da D. Brown e dalle sue fonti. Infatti, già all’inizio del secolo scorso uno studioso protestante, Wellhausen (1) propose la teoria secondo la quale la religione ebraica ha seguito una linea “evoluzionistica” distinguendo una religione “pre-Mosaica” (animismo, totemismo), una “Mosaica” (monolatria) (2), una “profetica” (monoteismo etico) (3) ed una “post-esilica” (nomismo e culto della Legge e del sacrificio). Questa teoria ha però dei punti deboli, infatti nella religione di Israele non troviamo mai traccia di animismo e totemismo, la religione dei patriarchi non è mai in antitesi con quella dei profeti e del post-esilio. La tentazione maggiore è quella di cadere nell’errore di ricostruire la religione dalle deviazioni religiose popolari e, quindi, identificarle con la rivelazione divina. Certamente c’è stata una evoluzione nella religione d’Israele, ma omogenea. E’, quindi, più corretto parlare di una stessa rivelazione che viene gradualmente svelata fino alla forma più piena. La vera antitesi la si può constatare sempre tra gli Israeliti e i Cananei, quindi tra il popolo di Dio e i pagani che abitavano la terra promessa, cioè la Palestina.

Nell’Antico Testamento ritroviamo sicuramente strutture narrative che ricalcano elementi della letteratura Sumerico-Accadica (4), ma rappresentano solo una modalità di espressione per veicolare una sostanza che è invece unica. Anzi queste analogie ci aiutano a discernere quello che era comune agli ebrei e agli altri popoli e quello che invece era loro specifico. La sostanza unica, che non ritroviamo altrove, è la concezione che Dio è unico e ha fatto tutto, che c’è stato un intervento particolare per l’uomo, una felicità ed un ordine originari che l’uomo ha rovinato con il suo peccato, e la promessa del Redentore. Nella Bibbia Dio si svela attraverso le categorie umane, attraverso persone umane che vivono in una determinata civiltà, in determinati ambienti i quali hanno determinate concezioni. Le concezioni sono uguali per tutti i popoli circostanti, mentre la rivelazione di Dio vera e propria si distingue da tutti gli altri scritti.

Alla luce di quanto esposto appaiono ridicole le astruse affermazioni di D. Brown e compari. Infatti, l’interpretazione di Genesi 1, 1-2, “In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque”, è totalmente sbagliata. Il cielo e la terra sono termini che rappresentano tutto l’universo ordinato, e quindi anche le acque, creato da Dio. Il verbo creare, qui usato, traduce l’originario ebraico “barà” che nella Bibbia è riservato solo a Dio. E’ l’azione creatrice di Dio distinguendola dall’azione produttrice dell’uomo. Ciò vuol dire che Dio è l’inizio di tutto e che prima non esisteva niente. I termini che compaiono nel versetto 2, cioè informe (in ebraico "tohù" = vuoto), deserto, tenebre, abisso e acque sono immagini tipicamente semite che esprimono il concetto del nulla, dell’inesistente e, quindi, preparano la nozione di creazione a partire dal nulla. Lo spirito di Dio che aleggia sulle acque è, quindi, un’immagine che vuole dirci che al principio l’unica esistenza era quella di Dio. La creazione è infatti descritta solo a partire dal versetto 3 “Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu….” ed è operata dalla sua Parola, il primo versetto è infatti solo un titolo. Tutto ciò in perfetta analogia con quanto scritto da Giovanni nel suo Vangelo (Gv 1, 1-3) “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste”.

Povero D. Brown, la storiella di Geova è patetica. A parte il fatto che il nome ebraico di Eva (non esiste un nome pre-ebraico) non è “Havah”, ma “hawwâ” che significa “madre dei viventi”, è stato comunque, ormai da tempo, accertato che il termine Jehovah, in italiano Geova, è una errata traduzione del Sacro Tetragramma. Gli Ebrei scrivevano solo le consonanti delle parole, così anche il nome divino “Colui che è” (Esodo 3, 13-16) era scritto sempre e solo con le quattro lettere YHWH. Lo scriba, o chiunque sapeva leggere, aggiungeva le vocali appropriate alle consonanti, più o meno come facciamo noi con gli accenti delle parole. Ad esempio se troviamo scritto casa (senza accento) lo leggiamo come se l’avesse, ossia, càsa. L’ipotesi filologica moderna più largamente accettata propone l’uso delle vocali “a” ed “e”, cosicché il Sacro Tetragramma va pronunciato Yahweh. Il termine Jehovah, in italiano Geova, non è mai esistito nella scrittura, è un errore di traduzione postumo. L’origine di tale errore deriva dal fatto che gli Ebrei, per un eccessivo rispetto, leggendo la Scrittura evitavano di pronunciare il nome divino e a posto del sacro tetragramma leggevano come se fosse scritto Adonày, che significa Signore, cioè un nome più generico di Dio. Verso la fine del primo secolo dopo Cristo, con la dispersione dei Giudei in seguito alla distruzione di Gerusalemme, ad opera dei Romani nel 70 d.C., la lingua ebraica andò lentamente cadendo in disuso. Le nuove generazioni parlavano e leggevano le lingue dei popoli presso i quali erano dispersi (greco, latino) e diventava sempre più difficile leggere l’ebraico, cioè sapere come vocalizzare i vari termini. Per porre un rimedio alcuni dotti rabbini, detti masoreti, nel VI secolo dopo Cristo, iniziarono un lavoro di vocalizzazione della Scrittura. Arrivati al sacro tetragramma, siccome gli Ebrei leggevano sempre Adonày, a differenza, ad esempio, dei Samaritani che preferivano vocalizzare il sacro tetragramma, i masoreti lo tradussero usando proprio le vocali di Adonày, cioè “a”, “o”, “a”. Essendo la prima “a” una semivocale, questa si leggeva come una “e”, e così, da questo miscuglio, venne fuori il suono Jehovah cioè Geova (Emil G. Hirsch, "Jehovah" su Jewish encyclopedia, Jewish encyclopedia.com, 1901-1906). L’autorevole “Dizionario biblico” di J. McKenzie dice: "La pronuncia Geova è un errore risultante dalla combinazione delle consonanti J H W H con le vocali di Adonày , Signore, che i Giudei, leggendo le Scritture, sostituivano al Nome sacro, detto comunemente tetragramma".

In realtà già in Clemente Alessandrino, un Padre della Chiesa vissuto tra la fine del secondo secolo e l’inizio del terzo, la trascrizione del sacro tetragramma è “Jaoué”. Epifanio, morto nel 403 d.C., e Teodoreto, vescovo di Ciro, morto nel 438 d.C., utilizzarono “Jabé” o “Jaué” o “Jao” in quanto dicono di riferire la pronuncia tradizionale presso i Samaritani (Wilhelm Gesenius "Hebrew lexicon" tradotto da Edward Robinson, Oxford: The Clarendon Press, 1906). Quindi non c’è alcun dubbio che prima del lavoro dei masoreti i Giudei pronunciavano il sacro tetragramma “Jaoué” o“Jabé”, che trascritto in italiano diviene Jahvé. L’interpretazione del sacro tetragramma che fornisce L. Gardner è, invece, un guazzabuglio di politeismo ed interpretazione cabalistica. Infatti alcune tradizioni postume, riconducibili alla Kabalah ebraica, individuano come Madre e Figlia, la Y e come Padre e Figlio la W, ma le attribuzioni ad Asherah ed Anath sono frutto della fervida fantasia di L. Gardner, se non altro perché la cosa risulterebbe gravemente blasfema per qualsiasi ebreo, anche per quelli cabalistici.

Infine il riferimento alla figura di Lilith, sempre di L. Gardner, non fa altro che creare confusione. E’ vero che durante il soggiorno forzato degli Ebrei in Babilonia (cattività babilonese 597 - 539 a.C.), la cultura ebraica entrò in contatto con il culto di Lilith, ma essendo considerata una demonessa alata, i riti delle sacerdotesse lilithiane non erano ben visti dalla religione ebraica. Caduta Babilonia ad opera di Ciro II il Grande, il nome di Lilith venne usato in maniera dissacratoria dagli Ebrei per descrivere le “civette del deserto”. Ciò è documentato in Isaia 34,14 dove è scritto che Lilith farà il suo nido nel deserto, laddove ora giacciono le rovine della città del peccato Edom (Schrader "Jahrbuch für Protestantische Theologie", 1. 128; Levy "ZDMG" 9. 470, 484). L’affermazione, poi, che Lilith ha sempre rappresentato, in tutta la storia fino ai giorni nostri, l’etica fondamentale dell’opportunità femminile, non è altro che una sciocchezza astrologico-femminista di concezione tipicamente occidentale che non ha nulla a che vedere con la cultura ebraica.

Note

(1) Wellhausen per la prima volta raccoglie tutti i contributi degli studi precedenti (De Wette, Reuss, ecc…) per esporli in maniera compiuta. Egli individua nella composizione dell’Antico Testamento quattro documenti: quello Jahwista, quello Elohista, quello Deuteronimista e quello Sacerdotale (il Priester Codex). Teoria che, seppure con i suoi limiti, ha avuto storicamente la sua validità, cioè ha aiutato a leggere ed interpretare la Scrittura con spirito più critico e meno ingenuo. Wellhausen non tiene conto, però, della tradizione orale che era molto importante presso i semiti. Oggi si tende a considerare maggiore l’importanza delle tradizioni orali che poi vanno a confluire nei documenti scritti;
(2) Adorazione di un unico Dio non concepito come unico Dio;
(3) Un solo Dio che dà la Legge e s’interessa alla vita conforme alla Legge;
(4) Ad esempio il poema “Enuma Elish” descrive la creazione con le stesse concezioni cosmologiche della Bibbia, il poema “Enki e Ninhursag” contiene analoghe concezioni del paradiso terrestre, oppure l’epopea di Gilgamesh con la narrazione del diluvio. 

mercoledì 7 ottobre 2015

La scomoda libertà d'opinione

Stamattina su tutti i media viene riportata la notizia delle sconcertanti dichiarazioni fatte da un certo don Gino Flaim, collaboratore pastorale della chiesa San Pio X di Trento, che, ai microfoni di «L’aria che tira», trasmissione su La 7, ha cercato di giustificare la pedofilia e, incalzato dall’intervistatore, ha anche espresso l’opinione che l’omosessualità possa essere una malattia. Pronta è stata la reazione bipartisan di tutte le forze politiche che hanno condannato in toto le parole del sacerdote ed anche fulminea è stata la presa di posizione dell’arcidiocesi di Trento che si è dapprima dissociata dalle dichiarazioni del sacerdote, poi lo ha destituito da ogni incarico e dalla facoltà di predicazione. 

Non si può non plaudire alla tempestività dell’arcidiocesi di Trento che è giustamente intervenuta a reprimere immediatamente l’attività di una persona potenzialmente pericolosissima, che di cristiano non ha nulla, e che, purtroppo, nello svolgimento delle sue attività potrebbe anche essere stato o venire a diretto contatto con ragazzi e bambini. E’ veramente grave, e molto triste, che esistano esponenti della Chiesa, appartenenti al clero, capaci di avere ancora una mentalità giustificazionista verso reati così odiosi come la pedofilia. 

C’è, però, un aspetto in questa vicenda che mi lascia perplesso: la condanna del sacerdote, giusta e sacrosanta, espressa dai media non ha solo interessato le dichiarazioni sulla pedofilia, ma ha anche coinvolto l’opinione espressa nei confronti dell’omosessualità. Non trovo affatto giusto mettere le due opinioni sullo stesso piano e condannare il tutto come se avessero lo stesso peso. E’ certamente giusto e doveroso scandalizzarsi e condannare la difesa della pedofilia, un reato tra i più spregevoli, ma non lo è censurare l’opinione sull’omosessualità. Il sacerdote ha detto che ritiene l’omosessualità una malattia, ebbene cosa c’è di male in tale affermazione? Non si è trattato di un’offesa alle persone, degne di ogni rispetto, ma di un giudizio sull’omosessualità. Tanto più che tale affermazione non è neanche tanto peregrina, così come i media vogliono farla passare. Mi sembra utile ricordare che solo fino al 1991 l’omosessualità compariva nel Manuale Diagnostico dei disturbi mentali e che da questo è stata depennata a seguito di una semplice votazione, senza che sia mai stata addotta una motivazione scientifica. Non a caso l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che ha definito l’omosessualità una variante naturale del comportamento umano, non è mai riuscita ad individuarne la causa, il che equivale alla formulazione di un dogma vero e proprio. Come si fa a stabilire scientificamente un effetto, se non si conosce la causa che lo ha determinato?

E’ palese la profonda differenza tra le due affermazioni, ma nessun organo d’informazione si è curato di fare gli opportuni distinguo, così è passato il messaggio che considerare l’omosessualità una malattia, un disturbo, equivalga a giustificare un reato. Invece si è trattato di un’opinione che, non coinvolgendo direttamente alcuna persona, per quanto si possa ritenere sbagliata e distante dal proprio pensiero, deve poter essere espressa. Il pericolo insito in queste operazioni mediatiche di pubblico sdegno e condanna, anche ampiamente giuste e motivate, è quello della loro strumentalizzazione laddove finisce in un unico tritacarne ogni espressione del pensiero, anche quando questo è lecito e, per questo, da rispettare.