lunedì 30 novembre 2015

L'ottusità laicista contro il Natale


Fatalmente, come ogni anno, all'approssimarsi della ricorrenza del Natale, si registra l'ennesima intemerata del laicista di turno che se la prende con la festa più cara alla tradizione cattolica ed amata da tutti i bambini. "Bisogna fare un passo in avanti per il rispetto dei bambini non cattolici", ha sentenziato il preside di una scuola di Rozzano (MI), Marco Parma (nella foto), che ha abolito una rappresentazione natalizia sostituendola con una non ben identificata "festa dell'inverno".

La notizia è di qualche giorno fa ed ha alzato, come era prevedibile, un gran polverone. Il sindaco Barbara Agogliati di Rozzano che annuncia di chiedere una reintegrazione della rappresentazione religiosa, i soliti partiti politici che non perdono occasione per strumentalizzare l'accaduto, la patetica dimostrazione dei professori della scuola che si sono schierati a favore del preside, la protesta dei genitori dei studenti, ecc., insomma una grande confusione che non fa altro che mostrare il livello deprimente del "dialogo", in Italia, tra credenti e non. Ma la reazione più interessante è stata senza dubbio quella dei genitori della minoranza dei bambini islamici, i quali hanno candidamente dichiarato che la rappresentazione natalizia non li avrebbe minimamente offesi. Questa vicenda fa tornare alla mente il Shakespeariano "tanto rumore per nulla", visto che il solerte prodigarsi del nostro preside, eroe del laicismo, nel non offendere i bambini islamici con turpi rappresentazioni di bambini appena nati, è stato del tutto inutile. Possibile una tale ignoranza da parte di un qualificato tutore della cultura? Come è possibile che il nostro preside non sappia che Gesù è venerato anche dall'Islam e che è considerato un santo profeta dal Corano? Si dirà: ma il preside ha voluto tutelare il sentimento dei bambini con genitori atei. Poveri bambini, violentati ed offesi da turpi melodie inneggianti alla pace e alla letizia portate da un bambino appena nato. Veramente una mostruosa violenza. 

La scuola dev'essere laica non laicista, la soppressione della memoria del Natale non è rispetto e libertà, ma un rinnegamento delle radici cristiane sulle quali si basano i valori fondanti la nostra società. L’origine cristiana della nostra società è una evidenza storica. Se ignoriamo queste radici cesseremo di essere una civiltà e perderemo la nostra identità. Questa evidenza vale per chiunque, non solo per il cristiano, ma anche per il laico. Celebrare il Natale di Cristo non ha senso solo per i cristiani, ma anche per i laici, significa celebrare i valori di uguaglianza, amore, pace, rispetto, perdono che sono diventati patrimonio comune solo con la venuta di Cristo. La celebrazione delle feste cristiane da parte di una società laica come la nostra non è un'offesa o l'imposizione di una fede, ma il riconoscerci tutti insieme negli stessi valori che hanno creato la nostra convivenza. 

La sensazione forte, invece, è quella dell'assalto continuo da parte del laicismo contro la religione, un attacco veemente, che non ha oggettive motivazioni, ma solo quelle dettate dal proprio personale odio verso Cristo e la Chiesa.

giovedì 26 novembre 2015

Marcionismo, la negazione della radice giudaica

Con questa eresia torniamo molto indietro nel tempo per trattare un tema di eccezionale importanza riguardante la formazione del canone delle scritture cristiane e la competizione esistente nei primi due secoli dell’era cristiana tra la Chiesa originaria, apostolica, giudeo-cristiana e le ramificazioni del messaggio cristiano che costantemente si originavano tra i gentili, cioè le popolazione pagane non ebree. 

Il marcionismo nasce da Marcione, figlio di un vescovo di Sinope nella provincia del Ponto, agli inizi del II secolo. Consacrò la sua vita all’ascetismo e alla castità e questo gli valse la nomina a vescovo. Forse suggestionato dalla grande ribellione ebraica guidata dal condottiero Bar Kokheba, repressa dall’imperatore Adriano nel 135, Marcione coltivò da subito una certa avversione verso l’ebraismo al punto di arrivare a rinnegare le origini ebraiche del Cristianesimo. Secondo il suo pensiero gli insegnamenti di Cristo sono incompatibili con le azioni del Dio dell'Antico Testamento, infatti si convinse che solo nei discorsi di Paolo di Tarso era possibile riconoscere il vero Dio, fino ad allora sconosciuto, fautore di amore e pietà. Maturò, così, la convinzione che tutta la tradizione ebraica e l'Antico Testamento identificava un Dio malvagio e progenitore del male, capace unicamente di applicare punizioni severe per ogni mancanza da parte dell'uomo, che ha creato pieno di difetti e capace degli atti più efferati. Viceversa riteneva che il Dio predicato da Gesù fosse un Dio straniero, quello a cui si sarebbe riferito Paolo parlando con gli ateniesi nell'agorà, che essendo un Dio d'amore, pace e misericordia, doveva per forza trattarsi una divinità diversa da quella d'Israele. In pratica Marcione non riusciva a vedere un’identità tra il Dio d’Israele e quello di Gesù, arrivando così a considerarli due divinità opposte. Con ogni probabilità Marcione fu molto influenzato dalla teologia dualistica tipica delle correnti dello gnosticismo docetista che si andavano sviluppando in quel periodo. Ebbe, infatti, contatti con Cerdone, un famoso gnostico siriano, che incontrò a Roma mentre predicava. 

Nonostante questi aspetti comuni con lo gnosticismo, Marcione non può essere considerato un vero e proprio gnostico in quanto per lui la salvezza non derivava dalla “gnosi”, cioè da una conoscenza esoterica, ma era un dono della Grazia divina. Per Marcione il Cristianesimo era costituito dalla sola Nuova Alleanza, quindi l'Antico Testamento, con la sua rozzezza e l'implacabilità del suo Dio, risultando inconcepibile, doveva pertanto essere accantonato.

Proprio per questo Marcione prese a considerare vere ed autentiche solo le scritture cristiane che non avevano nulla a che fare con l’ebraismo, tenne il solo vangelo di Luca, che si rivolgeva ai pagani, e dieci lettere di Paolo, realizzando così un suo personale canone totalmente svincolato dalla tradizione ebraica. Nel 140 Marcione si recò a Roma per vedersi riconosciuta la sua dottrina ed il suo personale canone delle scritture, ma venne subito aspramente criticato e scomunicato. Tra i suoi detrattori annoveriamo innanzitutto Ireneo di Lione (Contro le eresie), Policarpo (Seconda lettera ai Filippesi) e Tertulliano (Contro Marcione). Successivamente molti altri vescovi, Dioniso di Corinto, Teofilo di Antiochia, ecc. condannano le tesi di Marcione, praticamente tutta la Chiesa cristiana si ribellò all’idea di rinnegare le sue origini giudaiche, con buona pace di una larga storiografia moderna convinta di un acceso antisemitismo della Chiesa cristiana primitiva.

L’errore principale di Marcione sta, appunto, nel rinnegare l’origine giudaica del Cristianesimo perché la Chiesa di Cristo, essendo “messianica”, non si sostituisce a Israele, ma vi si innesta proprio secondo la dottrina di Paolo che viene totalmente fraintesa. Paolo, infatti, nella lettera ai Romani (cap. 11) paragona l'ulivo buono ad Israele sul quale sono stati innestati i rami d'ulivo selvatico che sono i pagani. Così dirà ai cristiani di Roma: “Non menar tanto vanto; non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te" (Rom. 11, 18). 

E’, quindi, da rigettare l’idea di Marcione del ripudio dell’Antico Testamento. Gesù disse a due dei suoi: "O insensati e tardi di cuore a credere a tutte le cose che i profeti hanno dette! Non bisognava egli che il Cristo soffrisse queste cose ed entrasse quindi nella sua gloria?" (Luca 24:25,26). Poi Luca continua a dirci: "E dissero l'uno all'altro: Non ardeva il cuor nostro in noi mentre egli ci parlava per la via, mentre ci spiegava le Scritture?" (Luca 24:32). Gesù è il Messia profetizzato dalle Scritture antiche, è solo in virtù delle promesse di Dio al popolo di Israele che si è avuta l’incarnazione del Figlio. Gesù, infatti, dichiarò apertamente: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento” (Mt 5, 17-20).

All’epoca di Marcione nessuna autorità aveva ancora stabilito con precisione quali scritti dovevano essere considerati Parola di Dio ispirata, ma sappiamo che presso le comunità cristiane di allora, durante le celebrazioni liturgiche domenicali, oltre alle memorie degli apostoli, cioè i vangeli, venivano letti anche gli scritti ebraici a testimonianza del fatto che l’Antico Testamento era tenuto in gran conto. Ce ne da prova Giustino di Nablus, che compose le sue Apologie proprio verso la metà del II secolo: “Nel giorno chiamato “del Sole” ci si raduna tutti insieme, abitanti delle città o delle campagne, e si leggono le memorie degli Apostoli o gli scritti dei Profeti” (Apol. I, 67, 3). L’iniziativa di Marcione ebbe l’effetto di suscitare la questione riguardante la selezione dei testi da ritenere sacri e finì per accelerare il processo di formazione del canone. Un importante documento risalente all’VIII secolo d.C., il Frammento Muratoriano, fa riferimento ad una prima lista ufficiale approvata da Pio, vescovo di Roma, morto nel 157, e considera canonici i vangeli di Matteo, Marco Luca e Giovanni, gli Atti degli Apostoli e tredici lettere paoline, non dimenticando di condannare come falsi gli scritti proposti dai Marcioniti. Solo vent’anni dopo Ireneo di Lione ribadirà che il vangelo è certamente unico, ma tetramorfo e Tertulliano, nel suo Adversus Marcionem, riconoscerà come ispirati i quattro vangeli canonici proprio in opposizione a Marcione. 


Bibliografia

J.N.D. Kelly, “Il pensiero cristiano delle origini”, il Mulino, Bologna, 1972.
R.M.Grant, “Gnosticismo e Cristianesimo primitivo”, il Mulino, Bologna 1976;
E. Norelli "La funzione di Paolo nel pensiero di Marcione" G. Ory, Marcion, Parigi 1980;
Bart Ehrman, "I Cristianesimi perduti" Carrocci editore, 2003

mercoledì 18 novembre 2015

Parte III – La fede d’Israele

Nel “capolavoro” di L. Gardner, il suo libro “La linea di sangue del santo Graal”, viene riportata una “rivelazione” sconcertante. Secondo gli studi di un certo Ahmed Osman, egittologo nativo del Cairo, il biblico patriarca Mosé deve essere identificato nientemeno che con Akhenaton, (si! proprio lui il faraone “eretico”, Amenofi IV). L’originalità del monoteismo ebraico, in realtà, non esiste. La fede ebraica in un unico Dio deriva direttamente dal culto al dio Aton, il disco solare, introdotto in Egitto proprio dal faraone eretico. Tutto ciò sarebbe provato dal fatto che proprio in quanto adoratore dell’unica divinità, Akhenaton fu bandito dall’Egitto, in analogia esatta a quanto successe al Mosè del racconto biblico. Inoltre il nome stesso di “Mosè”, si legge a pag. 20 del suo libro, deriva dall’egiziano e significa “figlio di…” o “erede” . Con queste argomentazioni L. Gardner vuole dimostrare che esisterebbe un collegamento tra la fede d’Israele ed i culti egiziani, specialmente quelli tributati alla dea Iside reputata la dea madre universale. 

Anche D. Brown, ne “Il Codice da Vinci”, allude ad un culto al “femminino sacro” esistente presso gli ebrei lasciandosi andare ad affermazioni sconcertanti sulla storia della religione ebraica: nel tempio di Salomone si adoravano Jehovah e la sua controparte femminile, la Shekinah, tramite i servigi delle prostitute sacre. Secondo D. Brown questa usanza sarebbe ben attestata dalla stessa Bibbia in 1 Re 14, 24. Lo stesso Salomone, il figlio di Davide, deriverebbe la sua saggezza dal fatto che permise il culto degli altri dei oltre a Javhè, così come indicato, ad esempio, in 1 Re 11, 4-10. 

Sempre ne “Il Codice da Vinci”, al capitolo 74, D. Brown arriva ad affermare che l’antica tradizione ebraica comprendeva rituali sessuali, cioè lo Hieros gamos, il matrimonio sacro, e che ciò avveniva nientemeno che nel sancta sanctorum del tempio di Salomone (cioè nella parte più interna e sacra, n.d.r.). Gli uomini che cercavano la completezza spirituale si recavano al tempio dove trovavano le prostitute sacre, le hierodule, e congiungendosi con loro avevano l’esperienza del divino. Secondo D. Brown il culto della dea dominava universalmente il paganesimo precristiano e il suo rito centrale, lo Hieros gamos, testimonia l’antica prevalenza della sessualità sacra. 

Affermazioni incredibili, Akhenaton e Mosé la stessa persona ed ebrei regolarmente intenti a congiungimenti carnali all’interno del tempio di Salomone. Stento a credere che si possa solo pensare ad enormità del genere. Affermazioni simili dimostrano una grossa ignoranza sia della storia ebraica che di quella egiziana. 

L’affermazione secondo la quale Mosè e Akhenaton sarebbero stati la stessa persona è completamente campata in aria. Infatti, mentre il faraone eretico Amenofi IV, che mutò il nome in Akhenaton, fu indubbiamente una figura storica, con Mosè abbiamo a che fare con una figura che di storico non ha nulla, ma che appartiene alla dimensione del ricordo. Non si sono mai trovate tracce dell’esistenza storica del grande legislatore ebraico. Egli è solamente una figura del ricordo che accoglie in sé tutte le tradizioni riguardanti la legislazione, la liberazione e il monoteismo (Jan Assmann “Mosè l’egizio”, Adelphi, Cusano-Milano 2007). Molto più seriamente si può affermare che l’idea di un’identità o dipendenza del monoteismo ebraico da quello di Akhenaton ha sempre affascinato gli studiosi. Nel corso dei secoli, a partire dall’Aigyptiaka, cioè una storia d’Egitto, di Manetone del III sec. a.C, riportata da Giuseppe Flavio, passando per il cosiddetto “Esodo” di Ecateo di Abdea, gli scritti di Lisimaco e Cheremone, l’ebreo Artapano, lo storico romano Tacito fino a Strabone che considerò Mosè un personaggio interamente egizio e che tanto influenzò le tormentate ricerche di Sigmund Freud nel suo “L’uomo Mosè e la religione monoteista” del 1939. Siamo di fronte, quindi, ad una questione vecchia quanto il mondo e non certamente ad una sorprendente novità svelataci dai vari Gardner e soci. Ma tutte queste ricerche sembrano proprio dipendere dagli scritti di Manetone, così come ce li ha tramandati Giuseppe Flavio, i cui intenti apologetici sull’antichità delle origini dell’ebraismo inficiano di molto la loro autenticità. In pratica si tratta solo di speculazioni che di storico hanno poco o nulla, ma partono unicamente dall’unico dato determinato dalle somiglianze, la credenza in un dio unico, l’anaiconicità, tra il culto professato da Akhenaton ed il monoteismo ebraico. 

Nel XIV sec. a.C. Akhenaton fece una rivoluzione introducendo il culto di Aton, cioè del disco solare, principalmente per abbattere il potere del clero tebano basato principalmente sul culto di Amon. Infatti la monarchia egiziana era caduta sotto la forte influenza dei sacerdoti del dio Amon. Questa divinità aveva una grande importanza ed aveva il ruolo di protettrice della regalità. Il suo tempio principale, situato a Karnak, nel corso dei secoli, aveva ricevuto in dono molte terre e svariate proprietà fino a diventare quasi uno stato nello stato capace di determinare la successione al trono d’Egitto. La rivoluzione di Amenofi IV, che cambiò il nome in Akhenaton cioè “amato da Aton”, fu quindi un tentativo di recuperare l’antica autorità sacra dei sovrani. Il monoteismo di Akhenaton, comunque, sebbene riservava ad Aton il culto principale, non rinnegava il complesso politeismo egizio. Gli studiosi, infatti, preferiscono parlare di enoteismo, cioè un culto in cui Aton non era l’unico dio, ma quello supremo. Akhenaton stesso, pur cambiando nome, non rinunciò al titolo di “Horo, figlio di Rà” che lo rendeva, egli stesso, una divinità. Egli non soppresse nessuno della miriadi di culti presenti in Egitto, ma volle solo porsi come unico intermediario tra l’umanità e la divinità estromettendo, così, il clero tebano. 

Ma anche tralasciando questi aspetti “politici” ad un’analisi più approfondita ci si accorge che esiste una profonda differenza tra i due “monoteismi”. La dottrina di Akhenaton è più una teoria cosmologica che una religione vera e propria. Aton, il dio di Akhenaton, è il Sole cosmico che splende sui buoni e sui cattivi e non formula alcun tipo di giudizio morale. Non si dà pena per il buono e il cattivo, il povero e il ricco, il giusto e l’ingiusto. Lui è il Sole, che splende per tutti. Qui sta la differenza fondamentale tra il monoteismo di Akhenaton e quello biblico, legato al nome di Mosè. L’una è fondata sul Sole, l’altra sulla Legge. La novità più sconvolgente del Dio d’Israele è, appunto, la sua “moralità”. Gli ebrei hanno sempre creduto in un Dio che pone in cima ai suoi pensieri la cura per la santità e la giustizia. In Levitico 19 il comandamento della santità rivolto agli uomini si fonda sul convincimento che Dio stesso è santo: “Il Signore parlo a Mosè dicendo: «Parla a tutta l’assemblea d’Israele, dì loro: siate santi, perché Io, il Signore, vostro Dio, sono santo»”. In Isaia 5, è Dio stesso giustizia: “Il santo Dio si mostra santo nella giustizia” e, in quanto tale, comanda agli uomini di essere giusti: “Smettete di fare il male, imparate a fare il bene. Ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso” (V. Messori “Ipotesi su Gesù”. Pag.70. Editrice Sei.). Questa “moralità” rende il Dio d’Israele un vero e proprio mistero, in quanto qualifica un’interpretazione teologica totalmente aliena a tutte le culture dell’epoca (Y. Kaufmann, "The Religion of Israel from its Beginnings", in Jahrbuch fùr biblische theologie, IV, Neukirken 1986 - 1990) e, quindi, anche a quella di Akhenaton.

Anche il riferimento all’origine egizia del nome di Mosé, che riporta Gardner, non prova un bel nulla. Infatti, anche se è sicuramente certa tale origine, Mosé, cioè “Mosis”, letteralmente significa: “figlio di …”, nella lingua egiziana tale termine appare sempre in combinazione con un nome di divinità: ah-, ka-, ra’-, tut-, cioè “Ahmosis”, “Kamosis”, “Ramosis”, “Tutmosis”, ossia “figlio di Tut”, “figlio di Ra” e così via. Quindi l’uso del solo suffisso come nome non può ascriversi ad una tradizione egiziana, bensì ad una interpolazione ebraica. Tra l’altro è ben nota presso gli ebrei la presenza di numerosi nomi di origine egiziana a testimonianza del loro soggiorno in Egitto. Ne sono esempio i nomi tipicamente egiziani dei due indegni figli del profeta Eli, Hofni e Pineas.

L’affermazione secondo la quale il culto ebraico nel tempio di Gerusalemme prevedesse regolari pratiche sessuali è una scempiaggine di proporzioni gigantesche. Una ridicolaggine del genere significa non avere alcuna idea di cos’è l’Antico Testamento, di cosa c’è scritto e di quale siano le caratteristiche della fede ebraica in Javhè. 

C’è da chiedersi come abbia potuto, D. Brown, spararla così grossa. Probabilmente avrà pensato di vedere nell’operato di Salomone l’istituzione di un nuovo culto, ma non è affatto così. In 1 Re 11, 4-10 non c’è alcuna giustificazione per culti pagani introdotti da Salomone, bensì una netta condanna. Inequivocabili sono i versetti 9 e 10 del cap. 11: “E l’Eterno s’indignò contro Salomone, perché il cuor di lui s’era alienato dall’Eterno, dall’Iddio d’Israele, che gli era apparso due volte, e gli aveva ordinato, a questo proposito, di non andar dietro ad altri dei”. Non è esistito alcun culto ufficiale della “dea” e nessuna prostituzione sacra nel Tempio di Gerusalemme, la visione di D. Brown è da considerare solo una versione distorta della corruzione del Tempio dopo Salomone (1 Re 14:24 e 2 Re 23:4-15). Nella condotta di Salomone, in 1 Re 11, 4-10, più che la volontà di introdurre i culti pagani in Israele, va vista una politica estera incentrata sul buon vicinato con le altre nazioni. I matrimoni di Salomone con donne straniere servivano a mantenere gli equilibri politici della regione e a favorire i rapporti commerciali. Nonostante ciò la Bibbia mette sempre all’indice il peccato di contaminazione, tanto che Dio predice a Salomone che a causa del suo peccato il suo regno andrà perduto (1 Re 11, 13). Il territorio in cui Israele si instaurò dopo l’esodo dall’Egitto (XII sec a.C.), ossia la terra di Canaan, era abitato da popolazioni caratterizzate dal culto della fecondità come dono divino. Il dio principale, Baal, era visto come la sorgente della fertilità ed il suo culto prevedeva rapporti sessuali sacri con sacerdotesse e sacerdoti a lui consacrati. Israele ha sempre avuto in orrore tali riti e questa avversione è già attestata nell’antichissima Genesi. Nel nono capitolo di questo libro della Bibbia viene individuato un capostipite di questi popoli nel nipote del patriarca Noé, di nome Canaan. Egli è il figlio di Cam, uno dei tre figli di Noé, ed è coinvolto in una vicenda oscura dal significato simbolico. Si legge in Gen 9, 21-22: «(Noé) si ubriacò e giacque scoperto all’interno della sua tenda. Ora, Cam, padre di Canaan, vide il padre scoperto e raccontò la cosa ai due fratelli, Sem e Iafet, che stavano fuori». Successivamente i tre figli ricomposero il padre scoperto senza guardarne la nudità. Smaltita la sbronza, Noé, stranamente, non se la prende con il figlio Cam, ma con il nipote Canaan, lanciandogli una maledizione: «Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà dei suoi fratelli!» (Gen 9, 25). La Bibbia, quindi, denuncia l’oscura colpa di “vedere la nudità” del padre come una condanna delle trasgressione sessuali tipiche dei culti idolatri cananei che insidiavano la fede d’Israele. Ma questo è solo il punto di partenza. Tutta la legge mosaica, la Thorà (cioè i primi cinque libri della Bibbia, il cosiddetto Pentateuco, n.d.r.), si scaglia continuamente contro ogni forma di culto straniero, specialmente quelli che prevedono riti a carattere sessuale e magico. In Esodo 22, 17-19; Levitico 19, 19 e 20, 6 vengono espressamente condannati i riti pagani basati sulla magia. Sono considerati un abominio i costumi sessuali dei popoli pagani, i rapporti sessuali presso gli ebrei erano confinati solo all’interno del matrimonio, ogni altra usanza è proibita dalla legge (Levitico 15, 16-18; Lev. 18; Lev. 20, 6-21; Deuteronomio 22, 22-28 e Deut. 22, 5). Particolarmente condannati sono i congiungimenti sessuali rituali. In Numeri 25, 1-9 si assiste ad un vero e proprio bagno di sangue in quanto l’applicazione della legge mosaica comporta l’uccisione di tutti gli israeliti e le prostitute sacre madianite che si sono congiunti sessualmente secondo il culto del dio Baal di Peor. La prostituzione sacra presso Israele è sempre stata condannata come una orribile contaminazione della fede originaria da parte dei culti cananei. Troviamo in Deut. 23, 18-19: «Non vi sarà alcuna donna dedita alla prostituzione sacra tra le figlie d’Israele, né vi sarà alcun uomo dedito alla prostituzione sacra tra i figli d’Israele. Non porterai nella casa del Signore tuo Dio il dono di una prostituta né il salario di un cane, qualunque voto tu abbia fatto, poiché tutti e due sono abominio per il Signore tuo Dio». Il termine “cane” indica in modo dispregiativo l’uomo prostituito. Si noti che è condannato anche solo il gesto di pietà di portare al tempio il dono di coloro che si sono macchiati del peccato della prostituzione sacra. Alla luce di tutto ciò è facile comprendere come il riferimento a 1 Re 14, 24 non prova affatto che la prostituzione sacra facesse parte del culto d’Israele, ma, al contrario, ci dimostra che era una deviazione dalla legge. Infatti Roboamo, figlio di Salomone, caduto nel paganesimo fu punito da Dio lasciando Israele in balia del faraone Sisach (XXII dinastia). Successivamente, tutte le deviazioni pagane verranno eliminate con la grande riforma religiosa operata dal re Giosia (2 Re 23, 1-25).

Mi sembra inutile continuare, credo che tutte queste evidenze dimostrino ampiamente che i vari L. Gardner, D. Brown e soci si siano inventato tutto.

giovedì 5 novembre 2015

Le persecuzioni dei cristiani, mito o storia?

Le continue violenze che i cristiani subiscono in ogni parte del mondo riportano alla mente i primi secoli dell’era cristiana quando le primitive comunità dovettero subire l’aggressiva intolleranza popolare e la dura persecuzione che diversi imperatori scatenarono contro di loro. Oggi, come allora, la fede in Cristo è ritenuta assurda e condannata in modo che i cristiani sono costretti a testimoniare la loro fede attraverso la terribile esperienza del martirio.  

Agli inizi dell’era cristiana le persecuzioni provennero unicamente dal Sinedrio di Gerusalemme, le autorità giudaiche si accanivano contro i cristiani accusandoli di empietà e bestemmia. Scoppiato un incendio a Roma nel 64 d.C. l’imperatore Nerone ne accusò i cristiani e organizzò la prima persecuzione, si trattava di trovare dei responsabili, così fu accusata la comunità cristiana una minoranza facilmente vulnerabile ed invisa alla popolazione. Da quell’episodio tutta una serie di uccisioni: nel 107 il vescovo di Antiochia Ignazio viene martirizzato a Roma, nel 155 viene ucciso il vescovo di Smirne, Policarpo, nel 177 vengono uccisi i martiri di Lione, nel 203 a Cartagine il martirio di Felicita e Perpetua e così via. Si trattò all’inizio di violenze ed uccisioni estemporanee per poi divenire organizzate e sistematiche nelle grandi persecuzioni di Massimino (235 d.C.), di Decio (250d.C.) e di Diocleziano e Galerio (303 d.C.).

Nonostante tali fatti siano largamente accettati dagli storici, ogni tanto saltano fuori delle analisi pseudostoriche che attaccano il cristianesimo per denigrarne i caratteri storici e trasformarli in miti. Si tratta di operazioni che affondano le loro radici nella falsa storiografia ottocentesca nata dalla corrente anticattolica dell’illuminismo. Nella fattispecie alcuni pseudostorici ridimensionano la portata delle persecuzioni che subirono i cristiani e le relega a semplici scaramucce tra l’autorità imperiale e bande di agitatori e sobillatori. E’ questo il caso, ad esempio, del libro “Il mito della persecuzione: come la prima cristianità ha inventato una storia di martirio” della prof.ssa Candida Moss ordinaria di Nuovo Testamento e Cristianesimo antico dell'Università di Notre Dame, Indiana, USA. Scrive la professoressa nel suo libro:

La storia tradizionale del martirio cristiano è errata. I cristiani non erano costantemente perseguitati, diffamati o presi di mira dai romani. Davvero pochi cristiani morirono, e quando morivano, venivano spesso condannati per quelle che nel mondo moderno chiameremo ragioni politiche. C'è una differenza tra persecuzione e processo. Un persecutore prende di mira rappresentanti di un gruppo specifico per una punizione immeritata meramente a causa della loro partecipazione in quel gruppo. Un individuo è processato perché quella persona ha infranto la legge […] convalidata e continua persecuzione. Gli striduli lamenti degli antichi cristiani che dicono che i romani erano sempre in agguato là fuori per catturarli erano   esagerati” (Candida Moss ”The Myth of Persecution: How Early Christians Invented a Story of Martyrdom” New York: HarperOne, 2013, pag. 159).

Indubbiamente le persecuzioni che subirono i cristiani nei primi tre secoli non furono continue, ai vari pogrom si alternarono lunghi periodi di tranquillità. Ciò non toglie, però, che anche in tali periodi i cristiani erano sempre potenzialmente perseguibili. Ciò è provato da molti documenti che testimoniano come i cristiani fossero costantemente in pericolo per la loro fede anche in periodi lontani dagli anni delle persecuzioni ufficiali. Il rescritto dell’imperatore Adriano a Minucio Fundano, proconsole d’Asia (Eusebio, HE IV, 9; Giustino, Apologia I, 68) con il quale, nel 122 d.C., si prescrive l’azione giudiziaria contro i cristiani solo sulla base di prove certe, quello dell’imperatore Traiano al governatore del Ponto e Bitinia, Plinio il giovane, del 112 d.C., (Plinio, Ep. X, 7) dello stesso tenore, oppure la raccomandazione, del 140 d.C., alle città greche, dell’imperatore Antonino Pio, di non fabbricare “storie” riguardo ai cristiani (Eusebio, HE IV, 26, 10) testimoniano come i cristiani fossero costantemente oggetto di denunce ed accuse da parte della popolazione pagana dell’impero. E queste reazioni degli imperatori provano come tali denunce non riguardarono presunte infrazioni della legge, ma partivano dal diffuso pregiudizio e dall’odio esistente allora verso i cristiani. E’ il famoso storico Tacito a darci prova di tale odio. Nei suoi Annali, scritti attorno al 112 d.C., descrive i cristiani (Ann. XV, 44) come invisi al popolo “a causa delle loro nefandezze”, e che la loro fede era una “esiziale superstitio”, vengono definiti “rei” e “meritevoli di pene severissime”, sono accusati di “odio del genere umano”. Ma non solo, molti altri li accusavano di costumi depravati, di omicidi rituali, di incesti. Illuminante, in tal senso, è la testimonianza di Minucio Felice, un apologista del II secolo, che nel suo Octavius riporta un’orazione contro i cristiani di un avvocato e retore, Frontone, nella quale vengono elencati tutta una serie di nefandezze, tra cui incesti ed omicidi rituali, di cui sarebbero responsabili i cristiani (Octavius VIII,4-IX,7). Quest’odio, talmente diffuso e radicato, giustifica ciò che, in quegli stessi anni, il cristiano Giustino di Nablus, rivolgendosi ad un altro accusatore del cristianesimo, il filosofo cinico Crescente, ebbe a dire: “Veramente è ingiusto ritenere per filosofo colui che, a nostro danno, rende pubblicamente testimonianza di cose che non conosce, dicendo che i Cristiani sono atei e scellerati; e dice ciò per ricavarne grazia e favore presso la folla, che resta ingannata” (II Apologia VIII).         
Proprio per quest’odio, nel 64 d.C., in occasione del grande incendio di Roma, l’imperatore Nerone ha gioco facile nell’incolpare i reietti cristiani, dando inizio così alla stagione delle persecuzioni anche in Occidente, dopo quelle che i primissimi cristiani subirono da parte della autorità ebraiche in Oriente. Ma, anche qui, secondo Candida Moss, esistono delle difficoltà, infatti scrive:

Nerone addossò la colpa e inflisse le più squisite torture su coloro che erano odiati per i loro abomini (pag. 138). Ciò non significa che questa storia sia completamente degna di fede. Bisogna esercitare qualche cautela quando si arriva a trattare Tacito. Gli Annali di Tacito risalgono agli anni 115-120, almeno 50 anni dopo gli eventi che descrive. Il suo uso del termine ''Cristiano'' è in qualche modo anacronistico. È altamente improbabile, al tempo in cui accadde il Grande Incendio, che qualcuno riconosca i seguaci di Gesù usando il nome ''Cristiani'' fino, come minimo, giusto alla fine del primo secolo.  Se i seguaci di Gesù non furono neppure identificati come cristiani, è altamente improbabile che i cristiani fossero ben noti e malvisti abbastanza da poterli Nerone selezionarli come capro espiatorio. Appare più probabile che la discussione di Tacito degli eventi di Roma intorno al tempo dell'Incendio rifletta la sua personale situazione intorno al 115. Tacito è evidenza della crescente animosità popolare verso i cristiani nel secondo secolo, ma egli non offre evidenza della loro persecuzione nel primo” (pag. 139).

Tesi, a mio avviso, insostenibile. Infatti non è storicamente possibile affermare che non siano esistiti cristiani a Roma nel 64 d.C. Innanzitutto abbiamo la lettera di Paolo di Tarso ai cristiani di Roma, comunemente datata al 57 d.C., che testimonia la presenza nella capitale dell’impero di un’importante comunità “nota in tutto il mondo per la loro grande fede” (Rm 1, 8). A conferma dell’esistenza di una comunità cristiana a Roma nel 64 d.C. anche la notizia presente negli Atti degli Apostoli (18, 1–2) che riguarda una coppia di coniugi giudeo-cristiani, Aquila e Priscilla, profughi provenienti da Roma in quanto espulsi dall’imperatore Claudio ed incontrati da Paolo di Tarso a Corinto. Notizia, tra l’altro, confermata dallo storico Svetonio (Vita di Claudio 25, 4). La Moss dice che Tacito è anacronistico a chiamare i cristiani in tal modo riferendosi al grande incendio di Roma del 64 d.C., ma non è solo lui a farlo. Anche Svetonio riporta di una persecuzione subita dai cristiani: “Furono puniti i cristiani, un gruppo di persone dedite a una superstizione nuova e malefica” (Nero 16, 2). Anche Svetonio si confonde? Improbabile. Svetonio ricoprì, fino all’anno 122 d.C., l’importante incarico di archivista (procurator a studiis), segretario (ab epistulis) e bibliotecario (a bibliothecis) dell’imperatore Adriano, ed anche Tacito ricoprì ruoli molto importanti. Fu pretore, oratore, consul suffectus e proconsole in Asia e per la sua posizione politica, aveva accesso agli acta senatus, ovvero i verbali delle sedute del senato romano, e gli acta diurna populi Romani, ovvero gli atti governativi e le notizie su ciò che accadeva giorno per giorno. Appare estremamente improbabile che personalità del genere potessero incorrere in errori storici così grossolani.

A differenza delle comunità ebraiche sparse in tutto l’impero, sempre turbolente e di difficile gestione da parte delle autorità romane, come conferma la notizia di Svetonio (Nero 16, 2), i cristiani viceversa sono descritti dalle fonti come gente pacifica e rispettosa delle leggi. Ad esempio Eusebio ci narra dei controlli fatti eseguire dall’imperatore Domiziano sulle prime comunità giudeocristiane che accertano solo la presenza di pacifici contadini (Eusebio, H. E. III, 19.20, 1-6), le indagini del governatore della Bitinia, Plinio il giovane, che testimoniano gli usi e i costumi assolutamente pacifici dei cristiani (Epist. X, 96, 1-9), le notizie di pacifismo e virtù dei cristiani in Galeno (De sentent. Pol. Plat), Luciano di Samosata (De morte Per. XI-XIII), ecc. I cristiani non intendono affatto sovvertire l’ordine costituito: Paolo raccomanda la fedeltà alle istituzioni civili (Rm 13, 1) e che si preghi affinché i governanti possano agire con giustizia (1 Tm 2, 1-2). Ma, allora, da dove tutto l’odio che i cristiani si sono attirati fino ad arrivare alle persecuzioni sistematiche? Il fatto è che i cristiani non possedevano alcuno statuto giuridico all’interno dell’impero, agli occhi dei pagani costituivano un culto sconosciuto, straniero che non corrisponde alla tradizione degli antenati e che non ha ricevuto pubblico riconoscimento. Infatti fin dall’epoca antica presso i romani vigeva la prescrizione, attribuita al re Numa e riportata da Cicerone, che: “Nessuno abbia proprie divinità nuove o straniere, non riconosciute pubblicamente” (De legibus II, 8, 19). Gli ebrei erano, invece, dispensati dal culto ufficiale per il rispetto dovuto alla loro religione. Tacito scrive, infatti: “I riti dei Giudei, ad esempio, per quanto diversi da quelli di tutti gli altri popoli, vanno difesi per la loro antichità” (Historiae, V, 5, 1). Tutto ciò spiega il fatto che gli ebrei non furono mai perseguitati per la loro religione, ma solo perché perturbatori dell’ordine costituito.


L’atteggiamento dei cristiani, invece, fu sempre caratterizzato da un lealismo verso l’impero e da ostilità verso le pratiche religiose da esso imposte. Ciò procurò loro, nei primi secoli, disprezzo e qualche persecuzione, ma col passare del tempo, l’indebolimento e lo sfaldamento della società pagana, la minaccia dei nemici alle frontiere, indusse gli imperatori a puntare sulla religione degli antenati come elemento di coesione nazionale, quindi iniziarono le grandi persecuzioni sistematiche. Ma fu un tentativo disperato che fallì miseramente perché anacronistico, il cristianesimo aveva già fatto conoscere l’umanità e la giustizia sociale di cui la società pagana era drammaticamente carente e nessuno era ormai disposto a tornare indietro.



Bibliografia

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S. Prete “Cristianesimo e impero romano” Patron, Bologna 1974;
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J. Moreau “La persecuzione del cristianesimo nell’impero romano” Paideia, Brescia, 1977;
G. Jossa “I cristiani e l'impero romano da Tiberio a Marco Aurelio” Carocci, Roma, 2000;
A. Sacchi “Lettera ai Romani” Città Nuova 2000;
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M. Sordi “I cristiani e l’impero romano” Editoriale Jaca Book Spa, Milano 2004.
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