venerdì 7 aprile 2017

La teocrazia bizantina



Tra le principali accuse che la critica storica laicista rivolge alla storia della Chiesa occupano un posto importante i riferimenti alla costituzione e sviluppo in età medioevale del potere temporale da parte dei papi e al fatto che tale potere abbia finito per limitare lo sviluppo dell’autorità laica a detrimento della libertà di autodeterminazione dei popoli. Ritengo questa critica abbastanza miope perché non tiene conto del fatto che la società medioevale europea era una realtà confessionale, nel senso che la fede cristiana, e conseguentemente l’autorità morale della Chiesa di Roma, era largamente considerata come il giusto e santo basamento per l’organizzazione civile e giuridica della società. E’ da questa innegabile realtà che è giusto parlare di radici cristiane dell’Europa. 

In quest’ottica il potere temporale della Chiesa s’inserisce come un elemento di terzietà, quindi di neutralità al di sopra delle parti, tra i rapporti dei vari Stati. Il fatto che la Chiesa abbia potuto avere un proprio potere temporale ha di fatto sottratto l’autorità dei papi dal controllo del potere laico dell’imperatore e dei vari principi. Tutto ciò ha, così determinato, seppure nella situazione particolare di una società teocratica, ad una differenziazione tra il potere laico e quello ecclesiastico. 

Ciò non è invece accaduto nella parte orientale del vecchio impero romano dove non si ebbe alcuna soluzione di continuità con il cosiddetto “impero bizantino” che non fu altro che la continuazione dell’impero romano d’Oriente. L’imperatore bizantino si considerò sempre l’unico vero successore degli imperatori romani che, una volta divenuti cristiani, non perdono nulla della loro antica sacralità. A differenza della società medioevale dell’Europa occidentale, la teocrazia bizantina si fonda sull’idea che il potere imperiale è l’immagine terrestre della sacralità di Cristo. Erede dell’universalismo politico romano e dell’universalismo spirituale evangelico, l’impero bizantino crede di potersi identificare con il Regno stesso di Dio. Cosicché la sua capitale, Costantinopoli, è la Nuova Gerusalemme del Nuovo Testamento e l’imperatore il delegato, il luogotenente di Cristo Re. L’imperatore, quindi, è considerato un “eletto da Dio”, “santo” ed è addirittura oggetto di un culto ufficiale le cui forme, che comprendono acclamazione ed incensazioni, ispireranno la liturgia bizantina. 

Tutto ciò non è senza gravi ripercussioni. Innanzitutto non esiste alcuna differenziazione tra ambito laico ed ecclesiale. Le leggi civili e quelle ecclesiali si confondono, al punto di essere perfino collocate nelle stesse raccolte. Il Codice di Giustiniano si apre con una professione di fede, il cristianesimo viene imposto per legge, pagani ed ebrei vengono combattuti e perfino annientati. Il diritto canonico, elaborato congiuntamente da Concili e da editti imperiali, arriva addirittura a consacrare il continuo intervento dell’imperatore nella vita della Chiesa. In queste condizioni l’imperatore, ovviamente, non esita a legiferare su questioni teologiche, il che provoca gravi crisi quando gli interessi dello Stato hanno la meglio su quelli della fede.

Nel VII secolo, ad esempio, scoppiò la crisi monotelita dovuta alla preoccupazione dell’imperatore Eraclio, davanti alla minaccia araba, di mettere d’accordo tutti i cristiani, ortodossi e monoteliti, emanando un editto che proclamava un’unica volontà, quella divina, nel Cristo. Oppure, ancora, la crisi, violenta e lacerante del secolo appena dopo, iconoclasta scatenata da un altro editto imperiale che imponeva la distruzione delle sacre “icone”. 

La teocrazia bizantina, dal momento che identifica l’impero con la cristianità trasforma l’evangelizzazione in un sinonimo di estensione della sovranità bizantina e ciò finisce per condizionare tutti i rapporti di Bisanzio con i popoli vicini: a nord gli slavi sono pagani da convertire con la forza, ma quando lo Zar di Bulgaria, un sovrano cristianizzato, si ribella nell’XI secolo, l’imperatore Basilio II non si fa tanti scrupoli a reprimere nel sangue la ribellione. A sud e ad est arabi e turchi sono gli infedeli per eccellenza e ad ovest l’Occidente latino è già considerato eretico, molto tempo prima dello scisma del 1050.

Questo isolamento porterà ben presto alla rovina dell’impero bizantino, il suo nazionalismo religioso, infatti, gli impedì di far causa comune col l’Occidente latino, cosicché nel 1453 la conquista di Costantinopoli da parte dei turchi Ottomani lo spazzò via per sempre. La teocrazia bizantina avrebbe dovuto riconoscere di non essere l’unico Stato cristiano della terra e perciò di non essere il Regno di Dio. Non ebbe questa capacità e tale carenza porto alla sua distruzione.

La dottrina politica dell’impero bizantino poggia su una concezione falsata della regalità di Cristo. L’imperatore venne divinizzato e considerato un superuomo, quando invece Cristo si rivela Re nel momento in cui è condannato a morte e crocifisso, una regalità di servizio e sacrificio, non di dominio. Nel vangelo di Giovanni Cristo afferma che il suo Regno non è di questo mondo (Gv 18,36). Nessuno Stato, quindi, può pretendere di incarnare il Regno di Dio, confondendo l’estensione territoriale con la trasmissione della fede ad altri popoli.

La vicenda dell’impero bizantino dimostra storicamente come il potere temporale della Chiesa di Roma sia stata una necessità che ha garantito la trasmissione incorrotta dell’ortodossia della fede apostolica ed impedito le aberrazioni politico-religiose di teocrazie sul modello di quella bizantina. 



Bibliografia

S. Runciman “La civiltà bizantina” Sansoni, Firenze 1960;
C. Dhiel, C. Capizzi “Storia dell’impero bizantino” Pontificio Istituto Orientale, Roma 1977;
A. P. Kazhdan “Bisanzio e la sua civiltà” Roma-Bari, Laterza, 1994;
G. Ravegnani ”La storia di Bisanzio” Roma, Jouvence, 2004.

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