Apologeticon, scritto o discorso in difesa. Questo blog vuole essere un momento di riflessione ed approfondimento in difesa della fede cristiana e delle sue basi storiche.
venerdì 25 dicembre 2020
venerdì 13 novembre 2020
I miti sulle Crociate. Il Papa incitò i cristiani alla guerra con la scusa delle violenze musulmane sui pellegrini.
Nel famoso appello alla crociata pronunciato da Urbano II nel 1095 al concilio di Clermont in risposta alla richiesta di aiuto formulata dall’imperatore d’Oriente Alessio I Comneno con i turchi selgiuchidi a soli 100 km da Costantinopoli, il papa addusse come giustificazione per l’azione anche il fatto che ormai da troppi anni i pellegrini cristiani in Terrasanta erano sistematicamente sterminati dopo essere stati sottoposti a raccapriccianti torture. Sulla scorta del mito diffusissimo della tolleranza musulmana, secondo il quale i musulmani avrebbero sempre rispettavano il pellegrino cristiano garantendo la possibilità di pregare il proprio Dio nei luoghi santi di Gerusalemme, molta storiografia apertamente anticattolica ha diffuso l’idea che il papa pur di attaccare l’Islam e diffondere con la forza il cristianesimo abbia ordito un inganno forzando la realtà delle cose, indugiando su immaginarie violenze in realtà mai avvenute. Per provare questa versione di solito viene affermato che il pellegrinaggio in Terrasanta non era un fenomeno così importante da giustificare addirittura una guerra, ma si trattava solamente di una pia pratica che veniva praticata saltuariamente solo da personaggi molto facoltosi.
Questa affermazione non alcuna base storica, sebbene nel primo secolo dell’era cristiana la pratica del pellegrinaggio non si fosse ancora affermata, ben presto nei secoli immediatamente successivi i cristiani presero a visitare i luoghi menzionati nei vangeli come Nazareth, Cana e la stessa Gerusalemme benché sia stata pressoché distrutta dalle armate di Tito nel 70 d.C. e di Adriano nel 135 d.C. Le prime informazioni dell’esistenza di un pellegrinaggio in Terrasanta ci giungono da Melitone, vescovo di Sardi, morto verso il 180 d.C., che visitò Gerusalemme e nella sua Omelia sulla Pasqua (Περὶ πάσχα, Perì Páscha, "Sulla Pasqua") elencò i più importanti luoghi sacri della città. Altro pellegrino fu Origene (185-254), il famoso teologo alessandrino, che viaggiò in Terrasanta affermando che è “desiderio di ogni cristiano ripercorrere le orme di Cristo” (S. Runciman “The Pilgrimage to Palestine before 1095” in Marshall W. Baldwin “A History of the Crusades. The First Hundred Years”, University of Wisconsin Press, Madison 1969, pag. 69). Importante fu l’avvenimento della conversione dell’imperatore Costantino, la cui madre, l’imperatrice Elena, scoprì molte reliquie attenendosi alle tradizioni locali ancora esistenti riguardanti l’esatta ubicazione dei luoghi sacri del cristianesimo. L’imperatore Costantino fece, così, erigere su tali luoghi molte chiese che furono subito meta di pellegrinaggi.
A testimonianza di tale fenomeno abbiamo la notizia certa del cosiddetto pellegrino di Bordeaux che nel 333 d.C. raggiunse la Terrasanta proprio mentre erano in costruzione le chiese fatte erigere da Costantino. Di questo pellegrino conosciamo dettagliatamente l’itinerario e la testimonianza delle opere costantiniane (Teddy Koller, Moshe Pearlman “Pilgrims to the Holy Land” Harper and Row, New York 1970, pag. 38). Altra preziosa testimonianza è la lettera scoperta nel 1884 in un monastero italiano scritta da una donna di nome Egeria che tra il 381 e il 384 aveva compiuto un pellegrinaggio in Terrasanta. Nel 385 anche San Girolamo notò in Terrasanta un gruppo di pellegrini romani tra i quali vi era una ricca vedova di nome Paola che fondò anche un monastero che finanziò col suo patrimonio e nel quale san Girolamo si dedicò alla traduzione della Bibbia dal greco e dall’ebraico al latino. Nel V secolo il pellegrinaggio aumentò al punto che a Gerusalemme si contavano circa 300 foresterie e, monasteri che fornivano alloggio. (Rodney Stark “Gli eserciti di Dio” Lindau, 2010, pag 118). Il flusso dei fedeli aumentò considerevolmente nel VI secolo. Importante la testimonianza di Sant’Antonino martire che nel 570 raggiunse la Palestina dall’Italia riferendo della presenza di tre chiese erette sul Tabor, nella bassa Galilea, la cui esistenza è confermata dai resti tuttora visibili (Teddy Koller, Moshe Pearlman “Pilgrims to the Holy Land” Harper and Row, New York 1970, pag. 51). Sant’Antonino riferisce anche del Santo Sepolcro e della sua grande venerazione, a più di due secoli dalla sua costruzione (Teddy Koller, Moshe Pearlman “Pilgrims to the Holy Land” Harper and Row, New York 1970, pag. 52). Anche il grande imperatore Giustiniano onorò la città del santo sepolcro facendovi costruire la nuova e sontuosa chiesa di Santa Maria Theotokos che comprendeva un ostello per i pellegrini (Rodney Stark “Gli eserciti di Dio” Lindau, 2010, pag 120).
Al tempo di Urbano II il pellegrinaggio in Terrasanta era ormai diventata una pratica diffusissima ed importantissima a cui i pellegrini legavano il desiderio di espiazione e la speranza di ottenere il perdono per i peccati commessi. Moltissimi si mettevano in viaggio, sfidando pericoli e scomodità inaudite perché speravano nella remissione dei peccati (Rodney Stark “Gli eserciti di Dio” Lindau, 2010, pag 125).
Appurato che il pellegrinaggio in Terrasanta era effettivamente una pratica molto importante e diffusa al tempo di Urbano II, resta da scoprire se veramente i musulmani fossero stati sempre tolleranti e benevoli con i pellegrini cristiani e se le accuse del Papa non siano stati solo che delle menzogne. Anche in questo caso abbiamo notizie che smentiscono questa fantomatica benevolenza dei governi musulmani. In realtà i pellegrini cristiani che si recavano in Terrasanta erano costantemente soggetti ad ogni sorta di violenza ed angherie. Le cronache del tempo riportano innumerevoli atti di violenza compiuti dai musulmani, prima arabi e successivamente dai turchi. Quella che segue è una mia raccolta di eventi storicamente accertati che testimoniano queste avvenute violenze:
-Agli inizi dell’VIII secolo settanta pellegrini cristiani provenienti dall’Asia Minore furono messi a morte dal governatore di Caesura, tranne sette che acconsentirono a convertirsi all’Islam;
-Altri sessanta pellegrini, sempre provenienti dall’Asia Minore, furono crocifissi a Gerusalemme;
-Verso la fine dell’VIII secolo i musulmani attaccarono il monastero di San Teodosio, nei pressi di Betlemme, massacrarono i monaci e distrussero due chiese vicine;
-Nel 796 i musulmani misero al rogo venti monaci del monastero di Mar Saba;
-Nell’809 vi furono molteplici assalti ad un gran numero di chiese e monasteri sia entro le mura di Gerusalemme sia attorno alla città, con stupri ed uccisioni di massa;
-Gli attacchi si ripeterono nell’813;
-Il giorno della Domenica delle Palme del 923 esplose una nuova ondata di violenze, con distruzioni di chiese e molte uccisioni;
-Sul finire del X secolo l’ordine monastico dei benedettini di Cluny costruì foresterie e locande lungo tutto il cammino percorso dai tanti pellegrini che si recavano in oriente. Si ha notizia di una schiera di pellegrini di sesso maschile, tra cui numerosi vescovi, partiti in 7000 dalla Germania e poi aumentato ulteriormente di numero (S. Runciman “The Pilgrimage to Palestine before 1095” in Marshall W. Baldwin “A History of the Crusades. The First Hundred Years”, University of Wisconsin Press, Madison 1969, pag. 76). Questa folta comitiva di penitenti fu attaccata dai predoni beduini tanto che alla fine soltanto 2000 pellegrini fecero ritorno alle loro case sani e salvi (Moshe Gil “A History of Palestine, 634-1099” Cambridge University Press, Cambridge 1992, p. 487);
-Il califfo fatimide Hākim, il distruttore del Santo Sepolcro a Gerusalemme nel 1009, costrinse tutti i cristiani delle città bizantine conquistate a portare una croce al collo di quasi due chilogrammi, imponendo invece agli ebrei la scultura di un vitello d’oro di identico peso affinché si vergognassero di aver adorato il vitello d’oro;
-Sempre il califfo fatimide Hākim, una volta conquistata la Palestina, diede ordine di incendiare o confiscare tutte le chiese cristiane. Alla fine risultarono bruciate o devastate circa 30 mila chiese (S. Runciman “A History of the Crusades. The First Hundred Years”, University of Wisconsin Press, Madison 1969);
-Nel 1022 Gérard de Thouars, abate di Sanit-Florent-prés-Saumur fu imprigionato e messo a morte appena arrivato in Terrasanta;
-Nel 1026 Richard de Saint-Vanne venne lapidato dopo essere stato sorpreso a celebrare la messa in territorio musulmano;
-Nel 1040 Ulrico di Breisgau fu lapidato dalla folla sulle rive del Giordano;
-Nel 1064 Gunther von Bamberg, vescovo di Bamberga, cadde con gran parte dei pellegrini in un’imboscata dei musulmani nei pressi di Caesarea. Si salvò solo un terzo dei cristiani (Jonathan Riley-Smith “The First Crusaders, 1095-1131” Cambridge University Press, Cambridge 1997, pag. 37-38).
Nel corso dell’XI secolo, una nuova sciagura si stava profilando da Oriente, i turchi selgiuchidi iniziarono a spostarsi verso Occidente e sotto la guida di Tugrul Bey occuparono la Persia nel 1045 stabilendosi a Bagdad come eredi del califfo abbaside. Dopo ciò il condottiero turco invase l’Armenia, un regno cristiano e nel 1048, mentre le forze bizantine erano concentrate nella repressione di una rivolta interna, i turchi si impadronirono della città armena di Ardzen massacrando gli uomini, violentando le donne e riducendo in schiavitù i bambini (V.J.J.Norwich “Bisanzio. Splendore e decadenza di un impero 330-1453” Mondadori, Milano 2001, pag. 340).
Nel 1063 successe a Tugrul Bey il nipote Alp Arslan che alla testa di un grande esercito espugnò facilmente la capitale armena Ani. La città venne messa a ferro e fuoco. Riferisce lo storico arabo Sibt ibn al-Jawazi (morto nel 1256), riportando la testimonianza di un testimone che: “l’esercito entrò nella città, massacrò i suoi abitanti e la saccheggiò […] i cadaveri erano così tanti che ostruivano il passaggio delle strade” (V.J.J.Norwich “Bisanzio. Splendore e decadenza di un impero 330-1453” Mondadori, Milano 2001, pag. 340);
-Nel 1067 l’armata turca di Arslan prese la citta di Caesarea, l’odierna Kayseri al centro della Turchia, abbandonandosi a massacri della popolazione civile;
-Nella loro marcia verso l’Egitto Fatimide, e quindi sciita, i sunniti Turchi invasero la Palestina e nel 1071 posero l’assedio a Gerusalemme che venne espugnata, saccheggiata e i suoi abitanti uccisi a migliaia. Successivamente vennero prese ed ebbero gli abitanti massacrati le città di Ramla, Gaza, Tiro, Giaffa (Gil “A History of Palestine” par. 410).
-Da quel momento il pellegrinaggio in Terrasanta diminuì enormemente in quanto i turchi presero a perseguitare apertamente i pellegrini che erano anche prede facili di ogni sorta di predone (Runciman “The Pilgrimage” pag. 78).
-Dal 1093 non era più possibile il pellegrinaggio in Terrasanta. Lo storico siriaco al ‘Azimi, del secolo XII, racconta che i musulmani impedivano di raggiungere Gerusalemme, e che le carovane venivano assaltate e i pellegrini massacrati (Gil “A History of Palestine” par. 488)
-Nel 1570 gli invasori musulmani uccisero a Cipro decine di migliaia di abitanti di fede cristiana (Niccolò Capponi ”Victory of the West. The Great Christian-Muslim Clash at the Battle of Lepanto” Da Capo Press, Cambridge 2006).
A Clermont Papa Urbano II non s’inventò niente, non fece altro che esternare pubblicamente la paura dell’Occidente verso la crescente aggressività e violenza del mondo musulmano verso la cristianità. Riferì una situazione che era già ben a conoscenza di tutti, i nobili europei erano già a sapevano delle brutalità verso i pellegrini dai propri famigliari che partecipavano ai vari pellegrinaggi. Quando Alessio Comneno o il Papa denunciarono tali massacri, l’Occidente era già a conoscenza di tali fatti (Runciman “The History of the Crusaders”). L’iniziativa delle crociate, quindi, non nacque dal nulla o da un’iniziativa personale del Papa, ma dallo scalpore, paura ed indignazione per le violenze perpetrate dai musulmani che nelle loro conquiste e colonizzazioni uccidevano i pellegrini e distruggevano e profanavano i luoghi santi della cristianità. A quel punto i cavalieri cristiani si risolsero a porre rimedio.
Bibliografia
S. Runciman “The Pilgrimage to Palestine before 1095” in Marshall W. Baldwin “A History of the Crusades. The First Hundred Years”, University of Wisconsin Press, Madison 1969;
S. Runciman “A History of the Crusades. The First Hundred Years”, University of Wisconsin Press, Madison 1969;
Teddy Koller, Moshe Pearlman “Pilgrims to the Holy Land” Harper and Row, New York 1970;
Moshe Gil “A History of Palestine, 634-1099” Cambridge University Press, Cambridge 1992;
Jonathan Riley-Smith “The First Crusaders, 1095-1131” Cambridge University Press, Cambridge 1997;
V.J.J.Norwich “Bisanzio. Splendore e decadenza di un impero 330-1453” Mondadori, Milano 2001;
Niccolò Capponi ”Victory of the West. The Great Christian-Muslim Clash at the Battle of Lepanto” Da Capo Press, Cambridge 2006;
Rodney Stark “Gli eserciti di Dio” Lindau, 2010;
venerdì 28 agosto 2020
Biglino e il Cristianesimo idolatra.
Nelle sue conferenze lo studioso Mauro Biglino afferma spesso che la sua attività si limiti solo ad una semplice lettura del testo della Bibbia e che non si sogna minimamente di giudicare la fede cristiana. In realtà Biglino si lancia spesso contro la Chiesa Cattolica e i cristiani accusandoli di idolatria. In molte delle sue conferenze suole fare le seguenti affermazioni:
“Di elenchi dei Dieci comandamenti ne abbiamo diversi nell’Antico Testamento, a noi ne è stato presentato uno che è quello che viene normalmente utilizzato. Inoltre dobbiamo sapere che i Comandamenti nella Bibbia sono più di seicento, non sono dieci, ci sono tutte le norme che sono state date a quel popolo […] Il decalogo dice: “Io sono il Signore tuo Dio che ti ho fatto uscire dalla terra di Egitto, non avrai altri dei davanti a me. Non ti farai scultura, né immagine, né di quello che è in cielo, quaggiù sulla terra, che è nelle acque, non ti prostrerai e non li servirai”, cosa che, invece, i cristiani fanno regolarmente. Tutte le chiese sono piene di immagini, statue, rappresentazioni. Eppure l’ordine è preciso e non è mai stato revocato".
L’accusa è chiara e non lascia scampo, la Chiesa e i cristiani cattolici non rispettano i comandamenti di Dio, sono degli idolatri perché riempiono le loro chiese di statue, immagini, fabbricano santini, medagliette e quant’altro. Ma sarà proprio come dice Biglino? Veramente la Bibbia condanna la fabbricazione di immagini? Ovviamente no, Biglino, come al solito, interpreta la Bibbia a modo suo e riporta nei suoi discorsi solo quello che è producente ai suoi scopi. Innanzitutto non esistono “diversi” elenchi dei dieci comandamenti, cioè di “decaloghi”, ma solamente due: quello che troviamo in Esodo 20 e quello presente in Deuteronomio 5. La Chiesa Cattolica, secondo una tradizione molto antica, risalente ai primi secoli dell'era cristiana, segue principalmente il decalogo presente nel libro del Deuteronomio e considera la prescrizione contro le immagini come parte del primo comandamento dove è detto che non bisogna avere altri dei, cioè degli idoli. Quindi la prescrizione riguarda solo le immagini e le statue che possano essere considerate come degli idoli. Nel capitolo quarto del Deuteronomio, che Biglino si guarda bene dal citare al suo auditorio, è chiaramente riportato il vero senso della proibizione delle immagini: “Quando il Signore vi parlò sull’Oreb dal fuoco, state bene in guardia per la vostra vita perché non vi corrompiate e non vi facciate l’immagine scolpita di qualche idolo, la figura di maschio o femmina, la figura di qualunque animale, la figura di un uccello che vola nei cieli, la figura di una bestia che striscia sul suolo, la figura di un pesce che vive nelle acque sotto la terra, perché alzando gli occhi al cielo e vedendo il sole, la luna e le stelle, e tutto l’esercito del cielo tu non sia trascinato a prostrarti davanti a quelle cose e a servirle” (Dt 4, 15-19).
Tutto ciò è confermato dal fatto che la Bibbia non condanna affatto la fabbricazione di immagini, anzi la pittura e la scultura possono essere praticati a scopo religioso. Dio ordina a Mosè di costruire un serpente di rame e di porlo su un’asta a motivo della salvezza degli israeliti:
“Il Signore disse a Mosè: “Fatti un serpente e mettilo sopra un'asta; chiunque, dopo essere stato morso, lo guarderà resterà in vita”. Mosè allora fece un serpente di rame e lo mise sopra l'asta; quando un serpente aveva morso qualcuno, se questi guardava il serpente di rame, restava in vita". (Nm 21, 8-9)
Ancora Dio ordina a Mosè di ornare l’Arca dell’Alleanza con due figure di Cherubini d’oro:
“Farai due cherubini d'oro: li farai lavorati a martello sulle due estremità del coperchio” (Es 25, 18)
“Mosè chiamò Bezaleel, Ooliab e tutti gli artisti, nel cuore dei quali il Signore aveva messo saggezza, quanti erano portati a prestarsi per l'esecuzione dei lavori. […] Tutti gli artisti addetti ai lavori fecero la Dimora. Bezaleel la fece con dieci teli di bisso ritorto, di porpora viola, di porpora rossa e di scarlatto. La fece con figure di cherubini artisticamente lavorati” (Es 36, 2-8)
“(Bezaleel) Fece due cherubini d'oro: li fece lavorati a martello sulle due estremità del coperchio: 8 un cherubino ad una estremità e un cherubino all'altra estremità” (Es 37, 7-8).
Sempre Dio ordina a Salomone di ornare il Tempio con figure di Cherubini e di piante. Tale operazione è descritta minuziosamente in 2 Cronache 3 e nel 1 libro dei Re al capitolo 6. Nel capitolo 7 del primo libro dei Re Dio ordina anche la decorazione con figure di leoni:
“Sulla parte liscia dei sostegni e sui riquadri Chiram scolpì dei cherubini, dei leoni e delle palme, secondo gli spazi liberi, e delle ghirlande tutto intorno” (1 Re 7, 36).
Il prestigioso Dizionario biblico di J. L. Mckenzie così commenta Deuteronomio 5, 7-10: “L’enumerazione delle immagini è completa ed include qualsiasi oggetto visibile che possa essere rappresentato. E’ improbabile che si tratti della proibizione totale di ogni forma di arte raffigurativa, come la interpretavano alcuni rabbini di vedute più rigide. Nell’antico Israele i cherubini erano immagini; nel I secolo dopo Cristo e anche posteriore si permettevano decorazioni artistiche di tombe e sinagoghe” (John L. Mckenzie “Dizionario Biblico” cittadella Editrice, Assisi 1973, p. 475).
Ma perché la Chiesa Cattolica adotta questa suddivisione dei comandamenti e considera la prescrizione contro le immagini solo come un commento al primo comandamento e non come un comandamento a sé stante? C’è da dire che il testo ebraico della Scrittura non ha alcuna punteggiatura, tutto è scritto in maniera continua, senza interruzioni tra una parola e l’altra. Sappiamo con certezza che abbiamo di fronte un decalogo, cioè una lista di dieci comandamenti, perché così è scritto nel libro del Deuteronomio (Dt 4, 13), ma non è ben chiaro dove ogni singolo comandamento inizi e finisca. Ciò ha portato ad una differente numerazione dei comandamenti secondo le varie confessioni religiose, infatti per l'ebraismo, per la Chiesa Ortodossa, per le Chiese Evangeliche, escluse quelle Luterane, il divieto di fare immagini di Dio e di prostrarsi di fronte ad esse o adorarle è separato dal primo comandamento costituendone il secondo. La Chiesa Cattolica, invece, ha adottato la tradizione agostiniana e il testo del Deuteronomio invece che dell'Esodo, ma ciò che è più interessante, è stata seguita la distinzione dei comandamenti operata dai masoreti, i dotti ebrei che attorno al secolo X aggiunsero al testo ebraico le vocali. I masoreti, infatti, divisero i comandamenti inserendo come segno di divisione l’uno dall’altro la lettera dell’alfabeto ebraico “samech” (ס), che equivale alla nostra “s”. Nella divisione operata dai masoreti la prescrizione contro le immagini non è distinta come un nuovo comandamento, ma rappresenta il commento al primo comandamento. Alla luce di tutto ciò cadono miseramente le accuse di Biglino che dimostra ancora una volta di conoscere molto superficialmente la Scrittura e neppure tanto bene l’opera dei masoreti.
Ma Biglino sbaglia anche da un punto di vista concettuale, per la Chiesa Cattolica l’Antico Testamento viene visto alla luce della rivelazione di Cristo. Per i cristiani i precetti della legge mosaica, i 613 “mitzvòt”, sono stati superati dalla nuova legge in Cristo, quella dell’interiorità del cuore rispetto alla esteriorità dei rituali. Certamente i dieci comandamenti restano fondamentali anche nel Cristianesimo perché provenienti direttamente da Dio e per il loro valore morale, ma non sono più interpretati alla lettera dell’epoca, bensì alla luce dell’aggiornamento evangelico. Nei Vangeli i dieci comandamenti vengono citati da Gesù (Mc 10, 19), ma vengono rivisitati e riassunti in solo due concetti fondamentali: il profondo amore verso Dio e l’amore per il prossimo come per sé stessi.
Altro elemento da considerare è il dato storico di cui Biglino è completamente all’oscuro. Prima di lanciare le sue ridicole accuse di idolatria lo studioso torinese avrebbe dovuto documentarsi sul fatto che questo comandamento sulla proibizione delle immagini è considerato dalla Chiesa cattolica come non più così importante. Infatti la sua importanza era relativa alla situazione socio-storica del tempo dove il popolo d’Israele viveva circondato da popoli vicini idolatri ed il pericolo di cadere nell’idolatria era elevato. La Chiesa nell’VIII secolo, con il Concilio di Nicea del 787 d.C., decide che essendo ormai maturata la comprensione della religione di Dio, come ausilio alla fede, può essere permessa la costruzione di immagini. Ormai è Cristo l’immagine di Dio (Col 1) e tale comandamento è superato, così come sono superati tutti i comandamenti di purità (cfr. Levitico). Ancora più chiaro è il pronunciamento del concilio di Trento che segue il pronunciamento di Nicea:
“Si deve attribuire il dovuto onore e la venerazione: non certo perché si crede che vi sia in esse una qualche divinità o virtù, per cui debbano essere venerate; o perché si debba chiedere ad esse qualche cosa, o riporre fiducia nelle immagini, come un tempo facevano i pagani, che riponevano la loro speranza negli idoli, ma perché l’onore loro attribuito si riferisce ai prototipi, che esse rappresentano. Attraverso le immagini, dunque, che noi baciamo e dinanzi alle quali ci scopriamo e ci prostriamo, noi adoriamo Cristo e veneriamo i santi, di cui esse mostrano la somiglianza. Cosa già sancita dai decreti dei concili - specie da quelli del secondo concilio di Nicea - contro gli avversari delle sacre immagini” (Concilio di Trento, Sessione XXV, 3-4 dicembre 1563).
Alla Parola, che unicamente caratterizza l’antica alleanza, fa seguito la visione di Cristo che si percepisce con i sensi. Egli è l’immagine del Padre e dice: “Chi vede me, vede il Padre” (Gv 14, 9).
La Bibbia condanna solo e sempre l’adorazione delle immagini e delle statue di divinità pagane ossia degli idoli, in contrasto con l’adorazione dell’unico Dio Yahweh. Ad essere condannata, quindi, è l’idolatria, cioè l’adorazione degli idoli o dèi pagani al posto dell’unico Dio Yahweh. Niente di tutto questo nella pratica cattolica di venerare le immagini e le statue. Le statue e le immagini venerate dai cattolici non rappresentano idoli o divinità pagane, bensì persone veramente esistenti nello stato di gloria assieme a Cristo. Ancora una volta Biglino dimostra di conoscere in modo molto approssimativo la Scrittura, le sue accuse ai cristiani sono inconsistenti ed infondate, per lo più una scopiazzatura di vecchie polemiche, ampiamente superate, che Biglino continua a riproporre in questa sua folle crociata contro le religioni e la Chiesa Cattolica in particolare.
BIBLIOGRAFIA
John L. Mckenzie “Dizionario Biblico” cittadella Editrice, Assisi 1973;
Dizionario “Brown-Driver-Briggs” Hebrew and English Lexicon
Biblehub.com.
mercoledì 12 agosto 2020
La Banalità del male.
La "banalità del male". Questa frase è il titolo di un saggio di Hannah Arendt, una politologa statunitense che documentò le varie fasi del processo tenutosi a Gerusalemme nel 1962 al criminale di guerra Adolf Eichmann. Questo gerarca nazista, durante la Seconda Guerra Mondiale, fu un burocrate dello sterminio, si occupò con meticolosità dell'organizzazione tecnica della macchina nazista della morte. Si difese affermando sempre di aver agito solo allo scopo di risolvere problemi logistici, obbedendo ad ordini che gli furono impartiti. Si riteneva un semplice impiegato che si limitava a svolgere il suo lavoro nel migliore modo possibile. Un lavoro che contribuì all'assassinio di quasi sei milioni di ebrei. Scrive la Arendt: "Più che l'intelligenza gli mancava la capacità di immaginare cosa stesse facendo. Non era stupido: era semplicemente senza idee (una cosa molto diversa dalla stupidità), e tale mancanza di idee ne faceva un individuo predisposto a divenire uno dei più grandi criminali di quel periodo" (H. Arendt "La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme" 1963, Feltrinelli (ed. 1999), pp. 290-291).
Qualche giorno fa il Consiglio Superiore di Sanità interpellato dal Ministro della Salute Speranza, ha indicato un aggiornamento delle vecchie linee guida sull'aborto farmaceutico del 2010. Ora non serve più il ricovero precauzionale per l'interruzione volontaria di gravidanza farmacologica, la Ru486, e la prescrivibilità è aumentata da sette a nove settimane. L'aborto farmacologico diviene, così, un fatto normale, banale, un'aspirina da prendersi con un goccio d'acqua. La donna, se vuole, può benissimo lasciare il consultorio mezz'ora dopo l'assunzione della pillola. Per il Servizio Sanitario Nazionale un vero vantaggio, tutto diviene meno dispendioso, è molto più facile dire alla donna: fai da te, fai da sola. Si risparmiano, così, posti letto, anestesie ed anche investimento umano di medici e di operatori sanitari. La vita umana diviene un problema, come un mal di testa da far sparire subito, senza tanti problemi. Eppure la legge 194 poneva tra i suoi principi il diritto alla vita del concepito, premeva affinché l'interruzione di gravidanza fosse l'ultima risoluzione da prendere. E invece, la vita umana innocente è sempre più considerata un male, un fastidio, un qualcosa da eliminare in modo sempre più semplice e normale.
La banalità del male.
mercoledì 8 luglio 2020
La proposta di legge contro l'omofobia, tentativo d'imposizione della dittatura laicista
In questi giorni è stata depositata alla Camera la famigerata proposta di Legge “Zan-Scalfarotto”, la cosiddetta “legge contro l’omofobia”, che dovrà essere votata, secondo le previsioni, dall’Aula il prossimo 27 luglio, per poi proseguire il suo iter in Senato.
Siamo, così, giunti alla stretta finale per veder materializzarsi l’ennesimo tentativo laicista di imporre un modo di vedere, il pensiero unico, che naturalmente non può che essere solo quello politicamente corretto del laicista. Se ne sono accorti anche i vescovi italiani, la CEI, i quali hanno espresso forti perplessità su una proposta di legge che introdurrebbe una deriva liberticida. Invece di tutelare le persone omosessuali dalla discriminazione, si finirebbe per colpire l’espressione di una legittima opinione.
Ovviamente da parte laicista tutte queste paure sono infondate e legate ad una mentalità gretta e retrograda. Lo stesso Zan ha affermato che: “Chi attacca questa legge presenta critiche legate ad un’eventuale violazione di libertà di espressione […] chi usa solitamente questi argomenti ha la coda di paglia e la coscienza sporca, non è pienamente in buonafede. Qui si tratta di punire quelle condotte omotransfobiche, che non significa punire la libertà di espressione bensì punire quelle istigazioni all’odio e alla violenza, o odio e violenza commessi direttamente, che sono legati all’orientamento sessuale e all’identità di genere”.
Rincara la dose anche l’on. Laura Boldrini che ha affermato: “La Cei ha sbagliato ad esprimere la sua avversità al testo […]. La legge non colpisce chi diffonde idee. Bisogna ribadire che non è in discussione in nessuno dei testi la libertà di opinione. Non c'entra nulla il bavaglio alla libertà di pensiero, è fuori dal nostro perimetro".
Allora, non c’è d’aver paura, solo fissazioni di quattro poveri gretti con la coda di paglia. Ma sarà veramente così? Il testo di questa proposta di legge, tra le altre cose che poi analizzeremo, estende i reati previsti dagli articoli 604 bis e 604 ter del Codice Penale alle manifestazioni d’odio fondate sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere, quindi si tratta di una aggiunta al testo di due articoli del Codice Penale. Prendiamo l’art 604 bis CP, avremo: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali, religiosi o fondati sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere”.
Come è facile capire questo articolo, così emendato, non condannerebbe solamente chi istiga a commettere atti di discriminazione, cioè le “condotte omotransfobiche” di cui parla l’ on. Zan, ma condannerebbe altresì chi “propaganda idee”, smentendo sonoramente ciò che afferma l’on Boldrini. La congiunzione ”ovvero”, che compare tra la propaganda e l’istigazione, infatti, individua due fattispecie di comportamento nettamente distinte.
E’ evidente che siamo di fronte ad una proposta di legge che introduce elementi di grossa ambiguità: chi stabilisce la differenza tra propaganda ed istigazione? Chi stabilisce se una affermazione contraria al maistream laicista su orientamento sessuale e identità di genere sia da condannare perché costituirebbe una istigazione e/o sarebbe fondata sulla superiorità? Se affermo che le coppie formate da persone omosessuali non hanno i requisiti per poter adottare dei bambini, propagando un’idea fondata su una qualche superiorità? Secondo questa proposta di legge parrebbe che sia proprio così.
Ad avere simili perplessità su questa proposta di legge è Il presidente emerito della Corte Costituzionale Mirabelli che così si eprime in un’intervista rilasciata ad Avvenire: “È evidente lo sforzo di limitare l’interpretazione espansiva, ma siamo su un crinale scivoloso perché qualche dubbio rispetto all’effetto certamente non voluto, è presente. Quando si dice che vengono colpite le espressioni formulate in modo lesivo, cosa significa? Che sarà preso in considerazione il garbo con cui una persona si esprime? Battute a parte, nel disegno legislativo non è chiara la differenza tra chi propaganda idee, le diffonde, giuste o sbagliate che siano e deve essere libero di manifestarle, e chi istiga a commettere atti di violenza o discriminazione”.
Ma c’è dell’altro: questa assurda proposta di legge contiene altre norme, poco conosciute, che aggiungono ulteriori elementi di prevaricazione ed imposizione del pensiero unico. L’articolo 6, al comma 1, infatti, recita così: “La Repubblica italiana riconosce il giorno 17 maggio quale «Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia», al fine di promuovere la cultura del rispetto e dell’inclusione nonché di contrastare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivati dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere, in attuazione dei princìpi di uguaglianza e di pari dignità sociale sanciti dalla Costituzione”. Ed ancora, al comma 3 si legge: “In occasione della «Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia», sono organizzate cerimonie, incontri e ogni altra iniziativa utile, anche da parte delle amministrazioni pubbliche, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, per la realizzazione delle finalità di cui al comma 1”.
Praticamente si vuole introdurre l’indottrinamento di Stato, la propaganda di teorie fatte passare per verità scientifiche, ma ciò che risulta più odioso la repressione della libertà di scegliere quale tipo di educazione da trasmettere ai propri figli.
E’ fin troppo chiaro e lampante che tutte le critiche sollevate da questa proposta di legge non sono affatto appannaggio di chi “ha la cosa di paglia e la coscienza sporca” come afferma l’on, Zan, ma costituiscono una giusta reazione ad un tentativo, neppure tanto velato, di imporre il pensiero unico, l’indottrinamento di Stato e la repressione del libero pensiero. Tutte caratteristiche tipiche di ogni regime laicista.
martedì 30 giugno 2020
I miti sulle Crociate. I crociati fondarono colonie europee in Medio Oriente
Ho già trattato circa il mito che vuole le Crociate come un mero fenomeno di imperialismo europeo, ma come abbiamo visto il motivo che spinse i crociati a quelle difficili e pericolose imprese fu essenzialmente dovuto alla loro fede cristiana, e quindi, alla riconquista dei Luoghi Santi e la protezione dei pellegrini.
Eppure il mito delle Crociate come fenomeno di proto-colonizzazione europea è duro a morire. Subito dopo l’attentato alle torri gemelle di New York molti commentatori hanno subito accostato l’inumana ferocia di un simile atto ad un risentimento musulmano che risalirebbe niente meno che alla Prima Crociata, alle morti ed alle distruzioni da essa portate, ma soprattutto all’occupazione coloniale che da essa sarebbe derivata (Joshua Prawer “Colonialismo medievale. Il regno latino di Gerusalemme”, Jouvence Editoriale, Roma 1982).
Che prove esistono a favore di una colonizzazione operata dai Crociati? I cristiani mossi dall’appello del Papa a partecipare alla Crociata furono davvero intenzionati a fondare colonie per conto dei regni cristiani europei? E’ certamente vero che alcuni di essi potrebbero aver avuto ambizioni territoriali, infatti i fautori di un cristianesimo colonialista citano spesso i casi di Boemondo di Taranto che fondò il Principato di Antiochia o di Baldovino di Boulogne che fu conte di Edessa e primo re di Gerusalemme. Ed è anche vero che la Prima Crociata si risolse con la conquista e la colonizzazione di buona parte delle coste del Mediterraneo orientale. Ma c’è un dato che contraddice questa visione: la Crociata non fu concepita per fondare colonie, ma per liberare il Santo Sepolcro. Lo storico delle Crociate J. Riley-Smith afferma che è molto improbabile che le Crociate siano state pianificate fin dall’inizio con lo scopo di fondare delle colonie e ciò è dimostrato dal fatto che il Papa, assieme ai capi militari della Crociata, era convinto che le forze cristiane occidentali si sarebbero unite con quelle orientali per formare un unico grande esercito al comando dell’imperatore bizantino, del cui impero faceva parte Gerusalemme, e che da quel punto in poi la campagna, in caso di successo, avrebbero ripristinato la sovranità greca sull’intero Oriente (Jonathan Riley Smith “Storia delle Crociate” A. Mondadori Editore, Milano 1994, pag 59).
Ciò che occorre aver ben presente è che l’impulso originario per la Crociata non fu di iniziativa dei Regni europei occidentali e tanto meno del Papa, ma dell’imperatore bizantino Alessio I Comneno (1081-1118). L’impero cristiano di Bisanzio che si estendeva dall’Italia fino all’Arabia, sotto i colpi delle armate musulmane, si era ormai ridotto a poco più della Grecia, ormai la sua scomparsa ad opera dei Turchi selgiuchidi sembrava imminente. Così, nonostante la Chiesa di Costantinopoli considerasse i papi scismatici e si fosse scontrata con loro per secoli, l’imperatore Alessio I Comneno mise da parte il proprio orgoglio e chiese aiuto. E fu così che come risposta a tale richiesta ebbe inizio la Prima crociata. Il Papa Urbano II raccolse questo grido di aiuto riconoscendo, dopotutto, il dovere primario per ogni cristiano di salvare i fratelli in pericolo. Per questo, con un suo decreto, intimò ai crociati di restituire ogni territorio liberato dell’impero bizantino al suo legittimo sovrano (Fulcherio di Chartres “Historia Iherosolymitana”, in Franco Cardini "Il movimento crociato", Sansoni, Firenze 1972, pp. 73-74).
Ma se le cose stanno in questo modo, perché i vari possedimenti di Antiochia, Edessa e della stessa Gerusalemme, finirono per costituire dei Regni Latini in Oriente?
Tutto ciò fu dovuto innanzitutto al comportamento infido ed opportunista dell’imperatore bizantino nei confronti dei Crociati che iniziò a manifestarsi apertamente al momento della conquista di Antiochia. Durante l’assedio, nel 1097, all’approssimarsi dell’inverno, l’esercito crociato si trovò a corto di vettovagliamenti e un gran numero di soldati moriva per fame. I Crociati avevano avuto assicurazione dall’imperatore che li avrebbe aiutati con abbondanti rifornimenti, ma il generale imperiale Tiatikos ebbe l’ordine di ritirarsi. Come è riferito in Gesta francorum: “[Tatikios] è un bugiardo, e lo sarà sempre. Fummo così abbandonati in condizioni di grave bisogno” (“Gesta francorum: the Deeds of the Franks and Other Pilgrims to Jerusalem” Traduz. di Rosalind Hill, Clarendon Press, Oxford 1962, pag. 35).
La situazione nell’accampamento crociato peggiorò a tal punto che diversi crociati, tra cui lo stesso Pietro l’Eremita e il visconte Guillame de Melun detto il Carpentiere disertarono (Rodney Stark “Gli Eserciti di Dio” Lindau, Torino, 2010, pag. 210). Ma nonostante tutte le difficoltà i Crociati diedero comunque l’impressione di poter espugnare la città, quindi Alessio I non perse tempo e postosi a capo di una armata si diresse verso Antiochia allo scopo di trovarsi sul posto al momento della vittoria e rivendicare il possesso della città. Ma ad Alessandretta, l’odierna Iskenderun, a soli 60 km da Antiochia, l’imperatore incontrò alcuni disertori che riferirono della situazione disperata in cui versavano i Crociati. Così l’imperatore, anziché accelerare l’andatura per portare i necessari aiuti, decise di fermarsi in attesa di altre informazioni (Rodney Stark “Gli Eserciti di Dio” Lindau, Torino, 2010, pag. 211).
Alla fine, senza l’aiuto di Alessio I, i Crociati riuscirono a prendere Antiochia, ma subito dopo giunse la notizia che i musulmani avevano radunato uno sterminato esercito con truppe fornite da molti sultani ed emiri poste sotto il comando di Kürboğa, atabey di Mosul. Questo intensificò le defezioni dei crociati e l’imperatore Alessio, accampato ad Alessandretta, deciso che la crociata era ormai fallita se ne tornò definitivamente a Costantinopoli. Questa ritirata riuscì a distruggere quel poco di credibilità che ancora poteva avere Alessio I dinnanzi ai crociati. Nel momento in cui avrebbero davvero avuto bisogno del suo aiuto, l’imperatore li aveva abbandonati al loro destino (Rodney Stark “Gli Eserciti di Dio” Lindau, Torino, 2010, pag. 213).
L’imperatore Alessio, che aveva raggiunto un accordo con i Crociati di mettersi alla guida della Crociata e di riottenere la città di Antiochia una volta consegnata, vista la difficile situazione abbandonò i crociati al loro destino e tradì gli accordi presi. Da quel momento i crociati si sentirono abbandonati dai greci e pensavano che non mantenessero i loro impegni. I Crociati, così, appena scoprirono che l’imperatore non era minimamente interessato a combattere con loro decisero di attaccare e condurre la Crociata per proprio conto (Jonathan Riley Smith "Storia delle Crociate", A. Mondadori Editore, Milano 1994, pag 59). Per Boemondo di Taranto, uno dei capi della Crociata il tradimento dell’imperatore faceva decadere ogni giuramento od obbligo nei confronti di Costantinopoli (Rodney Stark “Gli Eserciti di Dio” Lindau, Torino, 2010, pag. 215). Così la città di Antiochia, posta in posizione strategica per controllare i passi che dall’Asia Minore portavano in Siria e per tenere sgombra dalle potenze musulmane della Siria e dell’Iraq la strada della costa settentrionale, costituì un caposaldo importantissimo che doveva restare in mano amica, governata da qualcuno sul quale poter fare assegnamento. Di Alessio non si fidavano; i crociati, anzi, lo ritenevano un uomo che li aveva cinicamente manipolati per i suoi fini personali (Jonathan Riley Smith “Storia delle Crociate”, A. Mondadori Editore, Milano 1994, pag 88).
Anche il possesso della piazzaforte di Edessa, conquista realizzata da Baldovino, era fondamentale per la sopravvivenza della crociata. Ciò è testimoniato dalla insistita operazione contro di essa dell’enorme esercito di soccorso musulmano comandato dal governatore Kürboğa che nel 1097 si mosse da Mosul al fine di spezzare l’assedio crociato di Antiochia (Jonathan Riley Smith "Storia delle Crociate" A. Mondadori Editore, Milano 1994, pag 85).
Questi Regni, lungi dall’essere un’espressione di colonialismo europeo, nacquero perché erano producenti per le necessità dei Crociati. Una volta conquistata Gerusalemme e liberato il Santo Sepolcro di Cristo, occorreva una presenza cristiana che evitasse la riconquista da parte dei musulmani. Goffredo di Buglione, che guidò la Prima Crociata, non si considerò affatto un re a capo di uno Stato cristiano, ma semplicemente un protettore del Santo Sepolcro. A giudicare dai termini degli accordi ipotecari da lui stilati appare chiaro che Goffredo di Buglione nel 1096 non aveva alcuna definitiva intenzione di stabilirsi in Oriente (Jonathan Riley Smith, “Storia delle Crociate”, A. Mondadori Editore, Milano 1994, pag 73). In questi Regni vigeva un ordinamento giuridico feudale una società di frontiera. Dove tra i servizi richiesti figurava in primo piano quello militare. I feudi, quindi, non erano concepiti come una colonizzazione, ma un presidio atto alla difesa (Jonathan Riley Smith “Storia delle Crociate” A. Mondadori Editore, Milano 1994, pag 153).
J. Riley-Smith afferma chiaramente che ogni interpretazione delle Crociate come conquiste in chiave proto-coloniale è decisamente da scartare in quanto gli stati latini neo formati erano politicamente indipendenti dalla madrepatria. D’altra parte, il Santo Sepolcro non avrebbe mai potuto rimanere in mani occidentali senza l’occupazione e lo sfruttamento del territorio che lo circondava e si estendeva fino alla costa (Jonathan Riley Smith “Storia delle Crociate” A. Mondadori Editore, Milano 1994, pag 320).
Bibliografia
Franco Cardini "Le Crociate tra il mito e la storia", Istituto di Cultura Nova Civitas, Roma 1971;
Franco Cardini "Il movimento crociato", Sansoni, Firenze 1972;
Joshua Prawer “Colonialismo medievale. Il regno latino di Gerusalemme”, Jouvence Editoriale, Roma 1982;
Moshe Gil “A History of Palestine 634-1099” Cambridge University Press, Cambridge 1992;
Jonathan Riley Smith "Storia delle Crociate", A. Mondadori Editore, Milano 1994;
Rodney Stark “Gli Eserciti di Dio” Lindau, Torino, 2010.
giovedì 21 maggio 2020
La Chiesa e la nascita delle Università
Come è noto tra i tanti miti anticattolici che fanno parte dell’immaginario collettivo laicista un posto di primaria importanza occupa la convinzione che la Chiesa cattolica si sia sempre opposta al progresso scientifico per la paura di veder confutati i suoi dogmi di fede e come espediente repressivo per impedire lo sviluppo e l’autocoscienza dei popoli. Questo mito trae origine dalla vecchia accusa di oscurantismo che ha sempre contraddistinto il pensiero degli intellettuali illuministi e positivisti nei confronti della Chiesa e per connotare negativamente il Medioevo occidentale come un’epoca di declino culturale dopo la luce della ragione che avrebbe caratterizzato l’età classica. Secondo l'analisi illuminista sarebbe stata la teologia ad avere la preminenza sul pensiero scientifico e ad imporre le “verità bibliche” come principi basilari.
Questa “luce” della ragione sarebbe testimoniata dalle famose scuole della grecità come l’Accademia Platonica o il Liceo di Aristotele o anche la sapienza dei grandi imperi dell’antichità come quelli Cinese, Indiano o Persiano. In verità nessuna di queste istituzioni si prefiggeva la ricerca, la cura e l’insegnamento organizzato e sistematico del sapere. L’istituzione preposta a tali scopi, che viene comunemente denominata “Università”, nasce proprio in età medioevale. Il noto storico statunitense Charles Omer Haskins, considerato uno dei fondatori della storiografia medievale, scrisse: “Le università, come le cattedrali e i parlamenti, sono un prodotto del medioevo” (C.O. Haskins “Le origini delle Università” Il Mulino, Bologna, 1970, pag. 3).
Le università nacquero come sviluppo di precedenti scuole dove si insegnava cultura religiosa, uno sviluppo supportato dai sovvenzionamenti di cattedrali e monasteri, molte risalenti al VI secolo. Scrive lo storico Leo Moulin: “Il papa Urbano V manteneva come sembra 1400 borsisti […] ma le borse di studio non furono le sole forme di aiuto agli studenti poveri […] Il papa Gregorio IX concede un’indulgenza di 40 giorni ai “benefattori” che finanziano le spese di alloggio, se occorre negli ospedali, degli studenti poveri (1233) […] Il papa Innocenzo IV ingiunge nel 1245 al vescovo di Tolosa di provvedere all’alloggio dei “poveri scolari” (L. Moulin “La vita degli studenti del medioevo” Jaca Book, Milano 1992, pag. 54-55). Le prime sedi delle corporazioni di studenti e di maestri, cioè le università, trovano asilo presso monasteri e cattedrali. Lo storico G. M. Trevelyan, noto per essere dichiaratamente anticattolico, parlando dei primi studenti di Oxford e Cambridge, afferma apertamente che: “dobbiamo presentarceli quali tutti come “chierici” dello stesso tipo, protetti all’ombra di Becket (cioè l’arcivescovo cattolico di Canterbury) contro la corte e il boia del re” (G. M. Trevelyan “Storia d’Inghilterra” Garzanti, Milano 1981, p.216). Le università sorsero per arrivare ad un insegnamento ai massimi livelli, per la ricerca del sapere, non si limitarono al semplice tramandare della sapienza antica, ma tendevano, per la prima volta, all’innovazione. A governare questa rivoluzione culturale fu la filosofia cristiana medioevale, la Scolastica, che poneva la ricerca, l’apprezzamento delle idee delle emergenti scuole di pensiero e l’empirismo come la base del nuovo sapere. Le università medioevali ebbero subito questo tipo d’impostazione, cioè dare importanza alla prova ottenuta attraverso l’osservazione. Il sorgere delle università in tutta Europa fu opera soprattutto della Chiesa cattolica.
La prima università al mondo nasce a Bologna nel 1088, in territorio pontificio e anche le altre università più antiche come Parigi, Oxford, Padova, Roma, ecc. sorgono in terra cattolica, hanno stretti legami col mondo ecclesiastico e godono di privilegi direttamente concessi dai Papi e, più raramente, dai sovrani. A Roma nel 1303 nasce l’università della Sapienza, la più grande del mondo, per opera di Bonifacio VIII che la istituisce con la bolla “In suprema praeminentia dignitatis”. Si tratta dello “Studium Urbis”, un istituto che rappresenterà un punto d’incontro e di studio per tutti gli studiosi del mondo. Nel 1431 papa Eugenio IV lo allarga e ne conferisce una struttura più articolata ed efficiente. Nel 1500 papa Leone X, figlio di Lorenzo il Magnifico, potenzia ancor più l’università romana cosicché da tutta Europa giungono studiosi famosi conferendo ancor maggior prestigio, potenziando materie umanistiche, archeologiche e scientifiche. E’ proprio presso l’università di Roma che vengono introdotti i primi insegnamenti della simplicia medicamenta che saranno alla base dello studio della medicina. E’ in questi anni che vi studia Bartolomeo Eustachio uno dei fondatori della scienza anatomica moderna. Nel 1592 papa clemente VIII chiama a Roma Andrea Cesalpino che l’anno dopo fornisce la prova dell’esistenza della circolazione sanguigna e dei suoi due circoli, quello venoso e quello arterioso.
Parigi, invece, è l’Università degli studi filosofici e teologici, in cui insegna il domenicano Tommaso d’Aquino, mentre Oxford è l’Università dei francescani, di Roberto Grossatesta e Ruggero Bacone.
Scrive lo storico Leo Moulin: “Nel 1600 si contano più di cento università: tutte sono racchiuse nell’area socio-culturale dell’Europa. Non ve ne sono altre nel resto del mondo […] Non è un caso. Infatti l’Università è il frutto di un immenso slancio dell’intera società medioevale…”, ed ancora: “Nella bolla che emana nel 1388, per esprimere il proprio consenso alla fondazione dell’università di Colonia, il papa Urbano IV scrive che gli obiettivi principali della nuova istituzione saranno quelli di diffondere la scienza per scacciare le nubi dell’ignoranza” (L. Moulin “La vita degli studenti del medioevo” Jaca Book, Milano 1992, pag. 5-6).
Ma perché la scienza, e quindi i luoghi dove questa viene esercitata al massimo livello, cioè l’università, si sviluppò soltanto nell’Europa cristiana? La motivazione risiede nel fatto che l’Europa medioevale credeva che lo sviluppo della scienza fosse possibile ed auspicabile e ciò deriva dall’immagine che aveva di Dio e della creazione. La convinzione era quella che l’universo funziona secondo leggi immutabili in quanto Dio, che le ha poste, è perfetto. E siccome Dio ci ha dato la ragione, l’uomo è in grado di scoprire le regole che lui ha stabilito. Il celebre scolastico medioevale Nicola d’Oresme affermò che la creazione divina: “è molto simile a quella di un uomo che costruisce un orologio e lo lascia andare, perché continui il suo moto da solo” (A. W. Crosby “La misura della realtà” Dedalo, Bari, 1998, pag. 83).
Bibliografia
Whitehead Alfred North “La scienza e il mondo moderno” Bompiani, Milano, 1959,
Haskins Charles Omer “Le origini delle Università” Il Mulino, Bologna, 1970;
Alberto Trebeschi, Lineamenti di Storia del pensiero scientifico, Editori Riuniti, 1975;
L. Moulin “La vita degli studenti del medioevo” Jaca Book, Milano 1992;
A. W. Crosby “La misura della realtà” Dedalo, Bari, 1998
Francesco Agnoli “Indagine sul Cristianesimo” Edizioni Piemme, Milano 2010;
Rodney Stark “False Testimonianze” Edizioni Lindau, Torino 2016.
giovedì 30 aprile 2020
I miti sulle Crociate. Le Crociate ebbero lo scopo di convertire con la forza i musulmani al cristianesimo
Assieme alle solite accuse di aggressione deliberata, bramosia di bottino, conquista di nuove terre, ecc. le Crociate vengono anche dipinte come guerre scatenate soprattutto per imporre la fede cristiana alle popolazioni musulmane. Per il “politicamente corretto”, che caratterizza la nostra odierna percezione di quelle guerre, le Crociate furono promosse da pontefici avidi di potere e desiderosi di espandere il cristianesimo convertendo le masse musulmane alla fede in Cristo (Robert Eklund et al “Sacred Trust: The Medieval Church as an Economic firm” Oxford University Press, New York, 1999).
La convinzione, ancora molto diffusa, che crociati invasero il Medio Oriente per ordine del Papa al fine di sbarazzarsi con la forza dei mussulmani, ucciderli tutti, risparmiando solo quelli che si sarebbero convertiti al cristianesimo, allo scopo di assoggettare al “potere” della Chiesa immensi territori, è, come al solito, completamente falsa. Non esiste alcuna prova storica che possa solo minimamente supportare una sciocchezza del genere. Abbiamo già visto che qualsiasi appello a convertire i musulmani è totalmente assente dal discorso tenuto dal papa Urbano II a Clermont. Le uniche preoccupazioni del papa furono quelle della difesa dei pellegrini e la riconquista di territori precedentemente cristiani. Dalla Prima crociata del 1099, passò più di un secolo prima che i cristiani europei operino qualsiasi tentativo di convertire i musulmani al cristianesimo. Solo nel XIII secolo, infatti, i francescani tenteranno un’opera missionaria tra i musulmani residenti nelle terre di proprietà dei crociati. Un’impresa che tuttavia si rivelerà un totale insuccesso. Generalmente i crociati, nei loro domini, lasciarono vivere in pace i musulmani, permisero che praticassero liberamente la propria religione, che costruissero nuove scuole e moschee e che mantenessero i propri tribunali religiosi. A differenza di quanto accadeva nell’Islam, i crociati non imposero mai agli ebrei o ai musulmani di indossare dei segni di riconoscimento con il risultato che questi si risparmiassero discriminazioni e persecuzioni quotidiane (Jonathan Riley-Smith “The Oxford illustrated history of the crusades” Oxford University Press, Oxford 1995, p. 116). Mentre i musulmani sottoponevano gli ebrei e i cristiani al pagamento di una tassa (dimmah), nelle terre governate dai cristiani tale tassa per i musulmani non esisteva, anzi non è mai entrata a far parte della dottrina e della legge cristiana, mentre è stata e rimane parte integrante dell’Islam (R. Spencer “Guida all’Islam e alle Crociate” Lindau, Torino, 2008, pag. 190).
Non solo i crociati non operarono alcuna forma di proselitismo, ma generalmente non modificavano in alcun modo il sistema sociale musulmano. Le leggi ed il culto musulmano rimanevano inalterati. Lo storico J. Riley Smith nel suo saggio “Storia delle Crociate” riporta una serie di testimonianze di musulmani, viaggiatori, geografi, che non mancano di notare, meravigliati, questo comportamento dei cristiani: “I visitatori musulmani erano colpiti dai templi locali che continuavano a fiorire. Scrivendo della regione di Nablus, ‘Imad ad-Din commentò che i Franchi “non cambiarono una singola legge o pratica del culto degli [abitanti musulmani]”, un’osservazione ripetuta anche dal geografo Yaqut, che scrisse riferendosi a una moschea di Betlemme che “i franchi non hanno cambiato nulla quando hanno conquistato il paese” e dal viaggiatore Ibn Jubayr nella sua descrizione del tempio di ‘Ain el Baqar (la sorgente di Ox) ad Acri: “nelle mani dei cristiani, la sua venerabile natura è stata preservata e Dio l’ha conservata come luogo di preghiera per i musulmani” (Jonathan Riley Smith, “Storia delle Crociate”, A. Mondadori Editore, Milano 1994. Pag. 127).
Questa tolleranza dei cristiani non si limitava solamente ai musulmani, ma anche agli ebrei. Sono stati scritti e dette fiumi di parole sull’antisemitismo dei crociati, ma si tratta per lo più di calunnie. Scrive sempre Riley Smith: “Gli ebrei samaritani avevano costruito una nuova sinagoga a Nablus dopo il 1130 e della magnificenza delle sinagoghe di Meiron, nei pressi di Safad (Zefat), parla un viaggiatore ebreo intorno al 1240. Gli ebrei visitavano il Muro occidentale del Tempio e le tombe dei re sul Monte Sion” (Jonathan Riley Smith, “Storia delle Crociate”, A. Mondadori Editore, Milano 1994. Pag.127).
Certamente i crociati, ritenendo Gerusalemme come il luogo santo per eccellenza della Cristianità, la città dove il Signore Gesù aveva subito la passione, era morto e risorto, non permettevano che musulmani ed ebrei vi vivessero, ma non ne vietavano il pellegrinaggio. I musulmani potevano tranquillamente recarsi alla Cupola della Roccia, divenuta chiesa agostiniana, e alla moschea di el Aqsa, dove si erano insediati i monaci templari. Nel 1119 i canonici agostiniani scoprirono ad Hebron le presunte tombe dei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe e nacque subito un pellegrinaggio. Ebrei e musulmani potevano accedervi dopo i pellegrini cristiani pagando un obolo (docetur) al custode. Analogo accordo si ritrova a Sebastea, dove il clero riceveva omaggi dai musulmani che desideravano pregare nella cripta di San Giovanni Battista.
Un elemento in gran parte ignorato e poco conosciuto della dominazione crociata in Medio Oriente è il fenomeno della condivisione dei luoghi santi. Si ha notizia, ad esempio, di una chiesa condivisa con i cristiani siriani nei pressi di Tiberiade. Ad Acri, la cattedrale di Santa Croce, costruita sul sito di una moschea, includeva una zona dedicata alla preghiera dei musulmani ed entro le mura della città di ‘Ain el Baqar si ergeva una moschea-chiesa con un’abside orientale di gusto francese, che incorporava il mashhad (oratorio) di ‘Alì (il genero del profeta) usato dai musulmani, presumibilmente sciiti, dagli ebrei e dai cristiani, che credevano fosse il luogo nel quale Dio aveva creato il bestiame affidato ad Adamo: “Mussulmani e infedeli si radunano qui, e ognuno si rivolge al proprio luogo sacro”. Il viaggiatore ‘Ali al-Harawi attribuì la popolarità di questo luogo all’apparizione di ‘Alì che avrebbe terrorizzato i franchi" (Jonathan Riley Smith, “Storia delle Crociate”, A. Mondadori Editore, Milano 1994. Pag.127-128).
I famigerati Templari, monaci-guerrieri descritti soventemente come feroci cristiani estremisti e sanguinari, a Gerusalemme consentivano ai musulmani di pregare in una delle loro chiese, vicino alla moschea di el Aqsa. A tal proposito è illuminante il racconto che il contemporaneo letterato e pellegrino musulmano Usnah ibn Munquidh: “In occasione di ogni mia visita a Gerusalemme, sono sempre entrato nella moschea di el Aqsa, accanto alla quale si ergeva una piccola moschea che i franchi avevano convertito in una chiesa… I templari, che erano miei amici, evacuavano la piccola moschea adiacente per consentirmi di pregare…” (Jonathan Riley Smith, “Storia delle Crociate”, A. Mondadori Editore, Milano 1994. Pag.128).
Scrive ancora Usnah ibn Munquidh: “Ci sono dei Franchi alcuni che, stabilitisi nel paese, han preso a vivere familiarmente con i musulmani, e costoro son migliori di quelli che sono ancor freschi dei loro luoghi d'origine (...). Venimmo alla casa di un cavaliere di quelli antichi, venuti con la prima spedizione dei Franchi. Costui, ritiratosi dall'ufficio e dal servizio, aveva in Antiochia una proprietà del cui reddito viveva. Fece venire una Sella tavola, con cibi quanto mai puliti e appetitosi. Visto che mi astenevo dal mangiare, disse: "Mangia pure di buon animo, che io non mangio del cibo dei Franchi, ma ho delle cuoche egiziane, e mangio solo di quel che cucinano loro: carne di maiale in casa mia non ne entra!" (F. Cardini “Processi alla Chiesa. Mistificazione e apologia”, Piemme, Casale Monferrato 1994, p. 229).
Queste testimonianze provano che, gradualmente, nelle terre conquistate dai crociati e soggette al governo degli Occidentali fiorì una comunità composita dove artigiani, mercanti, agricoltori, sia musulmani che ebraici, entrarono a far parte di una società che ebbe un carattere originale tipico del Medio Oriente. Gli Occidentali cristiani impararono dalle comunità che avevano assoggettato tutta una serie di qualità a partire dalla lingua araba (ma anche il greco, l’ebraico, il siriaco) fino all’arte della tolleranza e del buon governo.
In tutto questo ebbe un peso determinante l’ordine e la capacità organizzativa esercitata dalla Chiesa che permise ai regni crociati neoformati di organizzarsi molto rapidamente. Scrive il famoso storico Franco Cardini: “Se per giungere a risultati del genere la società laica ebbe bisogno di un iter abbastanza lungo, quella ecclesiastica per contro seppe organizzarsi rapidamente. In quella terra d'antiche tradizioni cristiane, si trattava tutto sommato soltanto d'istituire un'organizzazione ecclesiastica dipendente dal patriarca latino di Gerusalemme e di subordinarle di diritto o di fatto le varie gerarchie delle Chiese orientali” (F. Cardini “Processi alla Chiesa. Mistificazione e apologia”, Piemme, Casale Monferrato 1994, p. 229).
Come abbiamo visto le crociate non ebbero alcun intento di proselitismo e non ci fu alcun intento di distruggere la fede islamica. Il fanatismo e l’odio verso le altre religioni che avrebbe caratterizzato la cristianità medioevale è solo una favola anticristiana ed anticattolica raccontata e propagandata da una storiografia falsa e piena di pregiudizi. Tale analisi storica dimostra, oltretutto, di non conoscere minimamente la natura dell’autorità della Chiesa. L’indizione della Crociata contro l’infedele non era un capriccio del Papa, ma restava sempre all’interno di prerogative ben delimitate e stabilite. Scrive lo storico J. Riley Smith: “Innocenzo IV, inoltre, era disposto ad argomentare che il papa aveva un’autorità de jure, ma non de facto sugli infedeli, avendo il potere di imporre loro di ammettere i missionari a predicare nelle loro terre e il diritto in ultima istanza di punirli per la violazione della legge naturale, ma sottolineava che i cristiani non potevano né combatterli perché erano infedeli né condurre guerre di conversione” (Jonathan Riley Smith, “Storia delle Crociate”, A. Mondadori Editore, Milano 1994. Pag.278).
Bibliografia
Franco Cardini "Le Crociate tra il mito e la storia", Istituto di Cultura Nova Civitas, Roma 1971;
Moshe Gil “A History of Palestine 634-1099” Cambridge University Press, Cambridge 1992;
Jonathan Riley Smith "Storia delle Crociate", A. Mondadori Editore, Milano 1994.
Franco Cardini, "Processi alla Chiesa. Mistificazione e apologia" Piemme Casale Mon.to (AL) 1994;
Jonathan Riley-Smith “The Oxford illustrated history of the crusades” Oxford University Press, Oxford 1995;
Robert Eklund et al “Sacred Trust: The Medieval Church as an Economic firm” Oxford University Press, New York, 1999;
Thomas F. Madden “Le crociate. Una storia nuova” Lindau, Torino 2005;
R. Spencer “Guida all’Islam e alle Crociate” Lindau, Torino, 2008;
Rodney Stark “Gli eserciti di Dio. Le vere ragioni delle crociate” Lindau, Torino, 2010.
giovedì 2 aprile 2020
il mito anticattolico della donna senz'anima.
Tra i tanti miti anticristiani, ed anticattolici in particolare, che hanno ancora oggi un largo credito c’è sicuramente quello secondo il quale la Chiesa cattolica, a causa della sua supposta misoginia, avrebbe messo in dubbio, ed anche negato, che la donna avesse l’anima come gli uomini. Ovviamente si tratta di una menzogna inventata in ambiente protestante e poi, nel loro livore contro la Chiesa cattolica, successivamente divulgata a più riprese dagli illuministi nel XVIII secolo. Eppure, come tante altre sciocchezze che girano sul conto della Chiesa e dei cristiani, questa menzogna ebbe un credito smisurato al punto che persino opere di alto spessore storico come “La civiltà del Medioevo europeo”, testo cardine dello storico Paolo Brezzi, inciampa ingenuamente su una fandonia simile. Scrive lo storico torinese: “Il famoso concilio di Mâcon, che discusse se la donna ha l’anima, non è un caso isolato o assurdo, anche se la decisione fu favorevole alle donne, in base alla considerazione che Cristo era il figlio di una donna" (Paolo Brezzi, “La civiltà del Medioevo europeo” Eurodes, 1978, I vol. pag 482.
L’abbaglio è enorme, infatti non ci fu alcuna discussione a Mâcon, cittadina francese della Borgogna, sul fatto che la donna avesse o meno l’anima come l’uomo. Infatti di quel “Concilio”, che tra l’altro tale non fu in quanto si trattò solo di un sinodo provinciale, possediamo tutti gli atti ufficiali e di una discussione del genere non c’è alcuna traccia. Mai, in nessun documento della Chiesa ufficiale di ogni tempo, si ebbe una simile discussione. Ma, allora, da dove saltò fuori questa storia? Nel libro ottavo della sua “Historia francorum”, scritto alla fine del VI secolo d.C. da Gregorio, vescovo di Tour, che partecipò a quel sinodo, vi è una descrizione dei lavori. Il vescovo riportò anche che, in una pausa della discussione, uno dei vescovo partecipanti pose ai confratelli la questione, puramente linguistica e non teologica, se il termine latino "homo" possa essere usato nel senso allargato di "persona umana", e comprendere dunque entrambi i sessi, oppure è da intendersi nel senso ristretto di "vir", cioè di maschio e, quindi, non applicabile alle donne. Come risposta tutti gli altri vescovi fecero notare che nella traduzione latina della Genesi, secondo cui Dio creò l’essere umano come maschio e femmina, il termine “essere umano” era tradotto “homo” e, quindi, comprendente sia l’uomo che la donna ed, inoltre, che la definizione di Gesù come "figlio dell’uomo" (filius hominis), anche se egli fosse "figlio della Vergine", dunque di una donna. Si trattò, quindi, solo di una curiosità linguistica, nessuna disputa teologica. E’ lo storico francese Jen-Pierre Moisset, nella sua “Storia del cattolicesimo” che riporta come il protestante calvinista Pierre Bayle, nel suo “Dizionario storico e critico” nel XVII secolo, riprende questa storiellina, la manipola per i suoi fini e la usa come prova per dimostrare come alcuni vescovi cattolici dei primi secoli avevano negato che le donne avessero l’anima. Annota il giornalista e storico Francesco Agnoli: “Questa idea, nota il Moisset, fu avidamente ripresa, ampliata e propagandata come vera da molti polemisti anticattolici, nonostante la sua patente assurdità” (Francesco Agnoli, “Indagine sul Cristianesimo” Edizioni Piemme, Milano, 2010, pag. 18).
E, così, assistiamo ancora oggi, a più di un millennio da quel sinodo, che la menzogna di Bayle resiste e si diffonde gettando un discredito terribile sulla Chiesa cattolica. Eppure basta un minimo di conoscenza della storia del Cristianesimo per rendersi facilmente conto del fatto che una tale notizia non può essere altro che una ridicola “bufala”. Come è possibile ignorare le innumerevoli figure di donne che hanno avuto ruoli importanti nella Chiesa e che hanno avuto il loro peso nella storia? Molte di queste sono portate ad esempio come i dottori della Chiesa Santa Caterina da Siena e Santa Teresa d’Avila, S. Monica, la madre di S. Agostino, modello di mitezza e perseveranza, S. Teresa del Bambin Gesù, che, monaca di clausura, con la sua preghiera sorreggeva le missioni in terre lontane, S. Teresa di Calcutta, l’angelo della carità per milioni di diseredati, e così via… come si può pensare che la Chiesa si chiedesse se queste persone possedessero un’anima oppure no? Scrive uno degli storici del Medioevo più importanti, la Prof.ssa Regìne Pernoud: “Strano che i primi martiri che sono stati onorati come santi, siano delle donne e non degli uomini: sant’Agnese, santa Cecilia, sant’Agata e tante altre. Triste davvero che santa Blandina o santa Genoveffa fossero prive di un’anima immortale! Sorprendente che una delle più antiche pitture delle catacombe (nel cimitero di Priscilla) raffigurasse precisamente la Vergine con Bambino, ben designata dalla stella a dal profeta Isaia” (R. Pernoud “Medioevo. Un secolare pregiudizio”, Bompiani 2019).
L’illuminista Voltaire, nel suo incitamento alla demonizzazione della Chiesa cattolica ebbe l’occhio lungo a riprendere una frase del Bacone: “Calunniate, calunniate, qualcosa resterà”. E ci azzeccò in pieno, chi mai si sarebbe preso la briga, nel settecento, di andare a verificare le fonti? La cosa triste è che ciò avviene ancor oggi.
Bibliografia
Paolo Brezzi “La civiltà del Medioevo europeo”, Eurodes, 1978;
Vittorio Messori “Pensare la Storia”, Ed. San Paolo, Milano 1992;
Francesco Agnoli, “Indagine sul Cristianesimo”, Edizioni Piemme, Milano, 2010;
R. Pernoud “La donna al tempo delle cattedrali. Civiltà e cultura femminile nel Medioevo” Ed. Lindau, Milano, 2017;
R. Pernoud “Medioevo. Un secolare pregiudizio”, Bompiani 2019.
giovedì 26 marzo 2020
La Bibbia sconfessa Mauro Biglino
In questo articolo mostrerò come la tesi di Biglino secondo la quale la Bibbia non parli di Dio, ma di un gruppo di individui in carne ed ossa, denominati “Elohim”, sia sconfessata da una semplice lettura della Bibbia. Come abbiamo già visto questa strampalata teoria è completamente smentita dalle regole grammaticali dell’ebraico antico, ma le argomentazioni di Biglino sono talmente rozze e campate in aria che anche chi non conosce l’ebraico può benissimo accorgersi della loro inconsistenza.
Mi riferisco a tutte le evenienze in cui il contesto della narrazione biblica indica chiaramente che il termine “elohim” ha a che vedere con un essere immateriale, trascendente e che, quindi, non può essere affatto confuso con un gruppo di esseri reali. Prendiamo, ad esempio, i salmi, preghiere antichissime alcune delle quali risalgono perfino al III secolo a.C., che rappresentano bene la fede d’Israele. In uno di questi, il salmo 9 (oppure 10 nella numerazione ebraica) possiamo leggere tra il versetto 22 e 25:
“Perché, Signore, stai lontano, nel tempo dell'angoscia ti nascondi?
Il misero soccombe all'orgoglio dell'empio
e cade nelle insidie tramate.
L'empio si vanta delle sue brame,
l'avaro maledice, disprezza Dio.
L'empio insolente disprezza il Signore:
«Dio non se ne cura: Dio non esiste»;
questo è il suo pensiero”.
(Bibbia di Gerusalemme)
In questo brano è chiaro che l’empio, cioè colui che compie il male, vista la sua impunità e la sofferenza del misero, nega la provvidenza di Dio e così facendo finisce per negare l’esistenza stessa di Dio (Elohim). Questo sentimento è ancor più chiaramente espresso in un altro salmo, il 14 (13 nella numerazione ebraica) dove possiamo leggere:
“Lo stolto pensa: “Non c’è Dio”.
Sono corrotti, fanno cose abominevoli:
nessuno più agisce bene”
(Bibbia di Gerusalemme)
Come vediamo al tempo della composizione di questi due Salmi vi erano persone che vedendo il prosperare degli empi ed il tardare dell’intervento di Dio finiscono per non credere nell’esistenza di Dio (Elohim).
Ma non solo tra i salmi è possibile rinvenire brani in cui il malvagio si fa beffe dei giusti proclamando l’inesistenza di Dio oppure vivendo come se Dio non esistesse. Nel libro di Geremia (5, 12) possiamo leggere:
“Hanno rinnegato il Signore (YHWH),
hanno proclamato: “non è lui!”
Non verrà sopra di noi la sventura
Non vedremo né la spada è fame”
(Bibbia di Gerusalemme)
Anche qui l’empio si comporta sempre allo stesso modo: non trema per la sua colpa di idolatria e non chiede perdono, anzi, induriscono i loro cuore fino a professare un ateismo pratico: “non c’è alcun dio YHWH”.
Leggendo questi versetti possiamo vedere che l’empio non ha alcuna paura delle sue azioni, non teme alcuna ripercussione, nessuna punizione. Sono talmente sicuri delle loro posizioni che arrivano a mettere in dubbio la stessa esistenza di Dio. Certamente siamo lontani da un ateismo teorico, filosofico, concetto distante dalla mentalità semita, ma comunque siamo di fronte ad un ateismo pratico: quell’essere che può punire, non c’è, è distante, non può causare nessuna sventura. E’ una proclamazione dell’impotenza del Dio di Israele e, quindi, viene negata la sua presenza. Questi versetti descrivono delle espressioni di ateismo, per l’empio YHWH non è Dio, non è nessuno, è un falso Dio.
La domanda che, a questo punto, s’impone è: come facevano queste persone a ritenere “Elohim”, “Yahweh” un falso dio, a non credere che possa punire l’empio e, comunque, a non intervenire nelle faccende umane, se fosse stato un personaggio in carne ed ossa? Se questi “elohim” fossero stati degli esseri reali, potenti e prepotenti, come è possibile che delle persone, cioè gli empi, pensavano di poter fare i loro comodi ed essere sicuri di alcuna ripercussione, al punto di negare la sua presenza? Ovviamente è più che evidente che nella Bibbia il termine “Elohim” si riferisca ad un essere del trascendente, un dio e non ad un personaggio immanente.
Ma la Bibbia ci offre anche spunti per capire che tra tutti gli “elohim” solo “Yahweh” è l’unico vero “elohim”, cioè l’unico vero Dio, mentre tutti gli altri sono solo falsi idoli. In tal senso è illuminante la vicenda di Naamàn, il comandante dell’esercito del re di Aram e del profeta Eliseo, che ritroviamo nel secondo libro dei re al capitolo 5:
“Egli [Naamàn], allora, scese e si lavò nel Giordano sette volte, secondo la parola dell'uomo di Dio [Eliseo], e la sua carne ridivenne come la carne di un giovinetto; egli era guarito. Tornò con tutto il seguito dall'uomo di Dio; entrò e si presentò a lui dicendo: «Ebbene, ora so che non c'è Dio su tutta la terra se non in Israele. Ora accetta un dono dal tuo servo». Quegli disse: «Per la vita del Signore, alla cui presenza io sto, non lo prenderò». Naamàn insisteva perché accettasse, ma egli rifiutò. Allora Naamàn disse: «Se è no, almeno sia permesso al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne portano due muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore” (2Re 5, 14-17).
In questo brano possiamo chiaramente notare come il condottiero arameo, malato di lebbra, cerchi una guarigione miracolosa, l’opera di un Dio, e che questa avviene semplicemente immergendosi per sette volte nel fiume Giordano. Si tratta di un gesto straordinario, inaudito, del tutto inconsueto. Lo stesso Naamàn, nei versi precedenti (11 e 12), si lamenta che a Damasco ci sono fiumi migliori del Giordano e che si aspettava un intervento diretto del profeta. Eppure avviene tutto senza intervento umano, chiara dimostrazione del fatto che la Bibbia sta descrivendo l’opera straordinaria di un essere trascendente.
Non solo, in questo brano avviene una netta presa di coscienza del fatto che esiste solo il Dio di Israele e che tutti gli altri non sono niente. A quel tempo, infatti, c’era la convinzione che ogni popolo avesse il proprio Dio (elohim), così l’elohim Camosh a Moab, l’elohim Moloch ad Ammon, l’elohim Baal in Fenicia, l’elohim Rimmon in Siria, ecc. eppure qui Naamàm, sperimentata la potenza di Yahweh, lo reputa l’unico Dio esistente e che tutti gli altri dèi non sono altro che idoli. Questa affermazione suona ben strana se i vari elohim fossero stati degli individui in carne ed ossa.
Non credo servano ulteriori altre conferme, quando il termine “elohim” si riferisce ad esseri sovrumani, potenti, che possono intervenire nelle vicende umane, il suo significato è quello di “dèi”, così come di “Dio” quando si riferisce alla figura di “Yahweh”. Nessun personaggio reale, nessun condottiero o alieno di sorta, solo fantasie di chi conosce molto male la Bibbia oppure confida nell’ignoranza dei suoi ascoltatori.
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