giovedì 26 novembre 2015

Marcionismo, la negazione della radice giudaica

Con questa eresia torniamo molto indietro nel tempo per trattare un tema di eccezionale importanza riguardante la formazione del canone delle scritture cristiane e la competizione esistente nei primi due secoli dell’era cristiana tra la Chiesa originaria, apostolica, giudeo-cristiana e le ramificazioni del messaggio cristiano che costantemente si originavano tra i gentili, cioè le popolazione pagane non ebree. 

Il marcionismo nasce da Marcione, figlio di un vescovo di Sinope nella provincia del Ponto, agli inizi del II secolo. Consacrò la sua vita all’ascetismo e alla castità e questo gli valse la nomina a vescovo. Forse suggestionato dalla grande ribellione ebraica guidata dal condottiero Bar Kokheba, repressa dall’imperatore Adriano nel 135, Marcione coltivò da subito una certa avversione verso l’ebraismo al punto di arrivare a rinnegare le origini ebraiche del Cristianesimo. Secondo il suo pensiero gli insegnamenti di Cristo sono incompatibili con le azioni del Dio dell'Antico Testamento, infatti si convinse che solo nei discorsi di Paolo di Tarso era possibile riconoscere il vero Dio, fino ad allora sconosciuto, fautore di amore e pietà. Maturò, così, la convinzione che tutta la tradizione ebraica e l'Antico Testamento identificava un Dio malvagio e progenitore del male, capace unicamente di applicare punizioni severe per ogni mancanza da parte dell'uomo, che ha creato pieno di difetti e capace degli atti più efferati. Viceversa riteneva che il Dio predicato da Gesù fosse un Dio straniero, quello a cui si sarebbe riferito Paolo parlando con gli ateniesi nell'agorà, che essendo un Dio d'amore, pace e misericordia, doveva per forza trattarsi una divinità diversa da quella d'Israele. In pratica Marcione non riusciva a vedere un’identità tra il Dio d’Israele e quello di Gesù, arrivando così a considerarli due divinità opposte. Con ogni probabilità Marcione fu molto influenzato dalla teologia dualistica tipica delle correnti dello gnosticismo docetista che si andavano sviluppando in quel periodo. Ebbe, infatti, contatti con Cerdone, un famoso gnostico siriano, che incontrò a Roma mentre predicava. 

Nonostante questi aspetti comuni con lo gnosticismo, Marcione non può essere considerato un vero e proprio gnostico in quanto per lui la salvezza non derivava dalla “gnosi”, cioè da una conoscenza esoterica, ma era un dono della Grazia divina. Per Marcione il Cristianesimo era costituito dalla sola Nuova Alleanza, quindi l'Antico Testamento, con la sua rozzezza e l'implacabilità del suo Dio, risultando inconcepibile, doveva pertanto essere accantonato.

Proprio per questo Marcione prese a considerare vere ed autentiche solo le scritture cristiane che non avevano nulla a che fare con l’ebraismo, tenne il solo vangelo di Luca, che si rivolgeva ai pagani, e dieci lettere di Paolo, realizzando così un suo personale canone totalmente svincolato dalla tradizione ebraica. Nel 140 Marcione si recò a Roma per vedersi riconosciuta la sua dottrina ed il suo personale canone delle scritture, ma venne subito aspramente criticato e scomunicato. Tra i suoi detrattori annoveriamo innanzitutto Ireneo di Lione (Contro le eresie), Policarpo (Seconda lettera ai Filippesi) e Tertulliano (Contro Marcione). Successivamente molti altri vescovi, Dioniso di Corinto, Teofilo di Antiochia, ecc. condannano le tesi di Marcione, praticamente tutta la Chiesa cristiana si ribellò all’idea di rinnegare le sue origini giudaiche, con buona pace di una larga storiografia moderna convinta di un acceso antisemitismo della Chiesa cristiana primitiva.

L’errore principale di Marcione sta, appunto, nel rinnegare l’origine giudaica del Cristianesimo perché la Chiesa di Cristo, essendo “messianica”, non si sostituisce a Israele, ma vi si innesta proprio secondo la dottrina di Paolo che viene totalmente fraintesa. Paolo, infatti, nella lettera ai Romani (cap. 11) paragona l'ulivo buono ad Israele sul quale sono stati innestati i rami d'ulivo selvatico che sono i pagani. Così dirà ai cristiani di Roma: “Non menar tanto vanto; non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te" (Rom. 11, 18). 

E’, quindi, da rigettare l’idea di Marcione del ripudio dell’Antico Testamento. Gesù disse a due dei suoi: "O insensati e tardi di cuore a credere a tutte le cose che i profeti hanno dette! Non bisognava egli che il Cristo soffrisse queste cose ed entrasse quindi nella sua gloria?" (Luca 24:25,26). Poi Luca continua a dirci: "E dissero l'uno all'altro: Non ardeva il cuor nostro in noi mentre egli ci parlava per la via, mentre ci spiegava le Scritture?" (Luca 24:32). Gesù è il Messia profetizzato dalle Scritture antiche, è solo in virtù delle promesse di Dio al popolo di Israele che si è avuta l’incarnazione del Figlio. Gesù, infatti, dichiarò apertamente: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento” (Mt 5, 17-20).

All’epoca di Marcione nessuna autorità aveva ancora stabilito con precisione quali scritti dovevano essere considerati Parola di Dio ispirata, ma sappiamo che presso le comunità cristiane di allora, durante le celebrazioni liturgiche domenicali, oltre alle memorie degli apostoli, cioè i vangeli, venivano letti anche gli scritti ebraici a testimonianza del fatto che l’Antico Testamento era tenuto in gran conto. Ce ne da prova Giustino di Nablus, che compose le sue Apologie proprio verso la metà del II secolo: “Nel giorno chiamato “del Sole” ci si raduna tutti insieme, abitanti delle città o delle campagne, e si leggono le memorie degli Apostoli o gli scritti dei Profeti” (Apol. I, 67, 3). L’iniziativa di Marcione ebbe l’effetto di suscitare la questione riguardante la selezione dei testi da ritenere sacri e finì per accelerare il processo di formazione del canone. Un importante documento risalente all’VIII secolo d.C., il Frammento Muratoriano, fa riferimento ad una prima lista ufficiale approvata da Pio, vescovo di Roma, morto nel 157, e considera canonici i vangeli di Matteo, Marco Luca e Giovanni, gli Atti degli Apostoli e tredici lettere paoline, non dimenticando di condannare come falsi gli scritti proposti dai Marcioniti. Solo vent’anni dopo Ireneo di Lione ribadirà che il vangelo è certamente unico, ma tetramorfo e Tertulliano, nel suo Adversus Marcionem, riconoscerà come ispirati i quattro vangeli canonici proprio in opposizione a Marcione. 


Bibliografia

J.N.D. Kelly, “Il pensiero cristiano delle origini”, il Mulino, Bologna, 1972.
R.M.Grant, “Gnosticismo e Cristianesimo primitivo”, il Mulino, Bologna 1976;
E. Norelli "La funzione di Paolo nel pensiero di Marcione" G. Ory, Marcion, Parigi 1980;
Bart Ehrman, "I Cristianesimi perduti" Carrocci editore, 2003

mercoledì 18 novembre 2015

Parte III – La fede d’Israele

Nel “capolavoro” di L. Gardner, il suo libro “La linea di sangue del santo Graal”, viene riportata una “rivelazione” sconcertante. Secondo gli studi di un certo Ahmed Osman, egittologo nativo del Cairo, il biblico patriarca Mosé deve essere identificato nientemeno che con Akhenaton, (si! proprio lui il faraone “eretico”, Amenofi IV). L’originalità del monoteismo ebraico, in realtà, non esiste. La fede ebraica in un unico Dio deriva direttamente dal culto al dio Aton, il disco solare, introdotto in Egitto proprio dal faraone eretico. Tutto ciò sarebbe provato dal fatto che proprio in quanto adoratore dell’unica divinità, Akhenaton fu bandito dall’Egitto, in analogia esatta a quanto successe al Mosè del racconto biblico. Inoltre il nome stesso di “Mosè”, si legge a pag. 20 del suo libro, deriva dall’egiziano e significa “figlio di…” o “erede” . Con queste argomentazioni L. Gardner vuole dimostrare che esisterebbe un collegamento tra la fede d’Israele ed i culti egiziani, specialmente quelli tributati alla dea Iside reputata la dea madre universale. 

Anche D. Brown, ne “Il Codice da Vinci”, allude ad un culto al “femminino sacro” esistente presso gli ebrei lasciandosi andare ad affermazioni sconcertanti sulla storia della religione ebraica: nel tempio di Salomone si adoravano Jehovah e la sua controparte femminile, la Shekinah, tramite i servigi delle prostitute sacre. Secondo D. Brown questa usanza sarebbe ben attestata dalla stessa Bibbia in 1 Re 14, 24. Lo stesso Salomone, il figlio di Davide, deriverebbe la sua saggezza dal fatto che permise il culto degli altri dei oltre a Javhè, così come indicato, ad esempio, in 1 Re 11, 4-10. 

Sempre ne “Il Codice da Vinci”, al capitolo 74, D. Brown arriva ad affermare che l’antica tradizione ebraica comprendeva rituali sessuali, cioè lo Hieros gamos, il matrimonio sacro, e che ciò avveniva nientemeno che nel sancta sanctorum del tempio di Salomone (cioè nella parte più interna e sacra, n.d.r.). Gli uomini che cercavano la completezza spirituale si recavano al tempio dove trovavano le prostitute sacre, le hierodule, e congiungendosi con loro avevano l’esperienza del divino. Secondo D. Brown il culto della dea dominava universalmente il paganesimo precristiano e il suo rito centrale, lo Hieros gamos, testimonia l’antica prevalenza della sessualità sacra. 

Affermazioni incredibili, Akhenaton e Mosé la stessa persona ed ebrei regolarmente intenti a congiungimenti carnali all’interno del tempio di Salomone. Stento a credere che si possa solo pensare ad enormità del genere. Affermazioni simili dimostrano una grossa ignoranza sia della storia ebraica che di quella egiziana. 

L’affermazione secondo la quale Mosè e Akhenaton sarebbero stati la stessa persona è completamente campata in aria. Infatti, mentre il faraone eretico Amenofi IV, che mutò il nome in Akhenaton, fu indubbiamente una figura storica, con Mosè abbiamo a che fare con una figura che di storico non ha nulla, ma che appartiene alla dimensione del ricordo. Non si sono mai trovate tracce dell’esistenza storica del grande legislatore ebraico. Egli è solamente una figura del ricordo che accoglie in sé tutte le tradizioni riguardanti la legislazione, la liberazione e il monoteismo (Jan Assmann “Mosè l’egizio”, Adelphi, Cusano-Milano 2007). Molto più seriamente si può affermare che l’idea di un’identità o dipendenza del monoteismo ebraico da quello di Akhenaton ha sempre affascinato gli studiosi. Nel corso dei secoli, a partire dall’Aigyptiaka, cioè una storia d’Egitto, di Manetone del III sec. a.C, riportata da Giuseppe Flavio, passando per il cosiddetto “Esodo” di Ecateo di Abdea, gli scritti di Lisimaco e Cheremone, l’ebreo Artapano, lo storico romano Tacito fino a Strabone che considerò Mosè un personaggio interamente egizio e che tanto influenzò le tormentate ricerche di Sigmund Freud nel suo “L’uomo Mosè e la religione monoteista” del 1939. Siamo di fronte, quindi, ad una questione vecchia quanto il mondo e non certamente ad una sorprendente novità svelataci dai vari Gardner e soci. Ma tutte queste ricerche sembrano proprio dipendere dagli scritti di Manetone, così come ce li ha tramandati Giuseppe Flavio, i cui intenti apologetici sull’antichità delle origini dell’ebraismo inficiano di molto la loro autenticità. In pratica si tratta solo di speculazioni che di storico hanno poco o nulla, ma partono unicamente dall’unico dato determinato dalle somiglianze, la credenza in un dio unico, l’anaiconicità, tra il culto professato da Akhenaton ed il monoteismo ebraico. 

Nel XIV sec. a.C. Akhenaton fece una rivoluzione introducendo il culto di Aton, cioè del disco solare, principalmente per abbattere il potere del clero tebano basato principalmente sul culto di Amon. Infatti la monarchia egiziana era caduta sotto la forte influenza dei sacerdoti del dio Amon. Questa divinità aveva una grande importanza ed aveva il ruolo di protettrice della regalità. Il suo tempio principale, situato a Karnak, nel corso dei secoli, aveva ricevuto in dono molte terre e svariate proprietà fino a diventare quasi uno stato nello stato capace di determinare la successione al trono d’Egitto. La rivoluzione di Amenofi IV, che cambiò il nome in Akhenaton cioè “amato da Aton”, fu quindi un tentativo di recuperare l’antica autorità sacra dei sovrani. Il monoteismo di Akhenaton, comunque, sebbene riservava ad Aton il culto principale, non rinnegava il complesso politeismo egizio. Gli studiosi, infatti, preferiscono parlare di enoteismo, cioè un culto in cui Aton non era l’unico dio, ma quello supremo. Akhenaton stesso, pur cambiando nome, non rinunciò al titolo di “Horo, figlio di Rà” che lo rendeva, egli stesso, una divinità. Egli non soppresse nessuno della miriadi di culti presenti in Egitto, ma volle solo porsi come unico intermediario tra l’umanità e la divinità estromettendo, così, il clero tebano. 

Ma anche tralasciando questi aspetti “politici” ad un’analisi più approfondita ci si accorge che esiste una profonda differenza tra i due “monoteismi”. La dottrina di Akhenaton è più una teoria cosmologica che una religione vera e propria. Aton, il dio di Akhenaton, è il Sole cosmico che splende sui buoni e sui cattivi e non formula alcun tipo di giudizio morale. Non si dà pena per il buono e il cattivo, il povero e il ricco, il giusto e l’ingiusto. Lui è il Sole, che splende per tutti. Qui sta la differenza fondamentale tra il monoteismo di Akhenaton e quello biblico, legato al nome di Mosè. L’una è fondata sul Sole, l’altra sulla Legge. La novità più sconvolgente del Dio d’Israele è, appunto, la sua “moralità”. Gli ebrei hanno sempre creduto in un Dio che pone in cima ai suoi pensieri la cura per la santità e la giustizia. In Levitico 19 il comandamento della santità rivolto agli uomini si fonda sul convincimento che Dio stesso è santo: “Il Signore parlo a Mosè dicendo: «Parla a tutta l’assemblea d’Israele, dì loro: siate santi, perché Io, il Signore, vostro Dio, sono santo»”. In Isaia 5, è Dio stesso giustizia: “Il santo Dio si mostra santo nella giustizia” e, in quanto tale, comanda agli uomini di essere giusti: “Smettete di fare il male, imparate a fare il bene. Ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso” (V. Messori “Ipotesi su Gesù”. Pag.70. Editrice Sei.). Questa “moralità” rende il Dio d’Israele un vero e proprio mistero, in quanto qualifica un’interpretazione teologica totalmente aliena a tutte le culture dell’epoca (Y. Kaufmann, "The Religion of Israel from its Beginnings", in Jahrbuch fùr biblische theologie, IV, Neukirken 1986 - 1990) e, quindi, anche a quella di Akhenaton.

Anche il riferimento all’origine egizia del nome di Mosé, che riporta Gardner, non prova un bel nulla. Infatti, anche se è sicuramente certa tale origine, Mosé, cioè “Mosis”, letteralmente significa: “figlio di …”, nella lingua egiziana tale termine appare sempre in combinazione con un nome di divinità: ah-, ka-, ra’-, tut-, cioè “Ahmosis”, “Kamosis”, “Ramosis”, “Tutmosis”, ossia “figlio di Tut”, “figlio di Ra” e così via. Quindi l’uso del solo suffisso come nome non può ascriversi ad una tradizione egiziana, bensì ad una interpolazione ebraica. Tra l’altro è ben nota presso gli ebrei la presenza di numerosi nomi di origine egiziana a testimonianza del loro soggiorno in Egitto. Ne sono esempio i nomi tipicamente egiziani dei due indegni figli del profeta Eli, Hofni e Pineas.

L’affermazione secondo la quale il culto ebraico nel tempio di Gerusalemme prevedesse regolari pratiche sessuali è una scempiaggine di proporzioni gigantesche. Una ridicolaggine del genere significa non avere alcuna idea di cos’è l’Antico Testamento, di cosa c’è scritto e di quale siano le caratteristiche della fede ebraica in Javhè. 

C’è da chiedersi come abbia potuto, D. Brown, spararla così grossa. Probabilmente avrà pensato di vedere nell’operato di Salomone l’istituzione di un nuovo culto, ma non è affatto così. In 1 Re 11, 4-10 non c’è alcuna giustificazione per culti pagani introdotti da Salomone, bensì una netta condanna. Inequivocabili sono i versetti 9 e 10 del cap. 11: “E l’Eterno s’indignò contro Salomone, perché il cuor di lui s’era alienato dall’Eterno, dall’Iddio d’Israele, che gli era apparso due volte, e gli aveva ordinato, a questo proposito, di non andar dietro ad altri dei”. Non è esistito alcun culto ufficiale della “dea” e nessuna prostituzione sacra nel Tempio di Gerusalemme, la visione di D. Brown è da considerare solo una versione distorta della corruzione del Tempio dopo Salomone (1 Re 14:24 e 2 Re 23:4-15). Nella condotta di Salomone, in 1 Re 11, 4-10, più che la volontà di introdurre i culti pagani in Israele, va vista una politica estera incentrata sul buon vicinato con le altre nazioni. I matrimoni di Salomone con donne straniere servivano a mantenere gli equilibri politici della regione e a favorire i rapporti commerciali. Nonostante ciò la Bibbia mette sempre all’indice il peccato di contaminazione, tanto che Dio predice a Salomone che a causa del suo peccato il suo regno andrà perduto (1 Re 11, 13). Il territorio in cui Israele si instaurò dopo l’esodo dall’Egitto (XII sec a.C.), ossia la terra di Canaan, era abitato da popolazioni caratterizzate dal culto della fecondità come dono divino. Il dio principale, Baal, era visto come la sorgente della fertilità ed il suo culto prevedeva rapporti sessuali sacri con sacerdotesse e sacerdoti a lui consacrati. Israele ha sempre avuto in orrore tali riti e questa avversione è già attestata nell’antichissima Genesi. Nel nono capitolo di questo libro della Bibbia viene individuato un capostipite di questi popoli nel nipote del patriarca Noé, di nome Canaan. Egli è il figlio di Cam, uno dei tre figli di Noé, ed è coinvolto in una vicenda oscura dal significato simbolico. Si legge in Gen 9, 21-22: «(Noé) si ubriacò e giacque scoperto all’interno della sua tenda. Ora, Cam, padre di Canaan, vide il padre scoperto e raccontò la cosa ai due fratelli, Sem e Iafet, che stavano fuori». Successivamente i tre figli ricomposero il padre scoperto senza guardarne la nudità. Smaltita la sbronza, Noé, stranamente, non se la prende con il figlio Cam, ma con il nipote Canaan, lanciandogli una maledizione: «Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà dei suoi fratelli!» (Gen 9, 25). La Bibbia, quindi, denuncia l’oscura colpa di “vedere la nudità” del padre come una condanna delle trasgressione sessuali tipiche dei culti idolatri cananei che insidiavano la fede d’Israele. Ma questo è solo il punto di partenza. Tutta la legge mosaica, la Thorà (cioè i primi cinque libri della Bibbia, il cosiddetto Pentateuco, n.d.r.), si scaglia continuamente contro ogni forma di culto straniero, specialmente quelli che prevedono riti a carattere sessuale e magico. In Esodo 22, 17-19; Levitico 19, 19 e 20, 6 vengono espressamente condannati i riti pagani basati sulla magia. Sono considerati un abominio i costumi sessuali dei popoli pagani, i rapporti sessuali presso gli ebrei erano confinati solo all’interno del matrimonio, ogni altra usanza è proibita dalla legge (Levitico 15, 16-18; Lev. 18; Lev. 20, 6-21; Deuteronomio 22, 22-28 e Deut. 22, 5). Particolarmente condannati sono i congiungimenti sessuali rituali. In Numeri 25, 1-9 si assiste ad un vero e proprio bagno di sangue in quanto l’applicazione della legge mosaica comporta l’uccisione di tutti gli israeliti e le prostitute sacre madianite che si sono congiunti sessualmente secondo il culto del dio Baal di Peor. La prostituzione sacra presso Israele è sempre stata condannata come una orribile contaminazione della fede originaria da parte dei culti cananei. Troviamo in Deut. 23, 18-19: «Non vi sarà alcuna donna dedita alla prostituzione sacra tra le figlie d’Israele, né vi sarà alcun uomo dedito alla prostituzione sacra tra i figli d’Israele. Non porterai nella casa del Signore tuo Dio il dono di una prostituta né il salario di un cane, qualunque voto tu abbia fatto, poiché tutti e due sono abominio per il Signore tuo Dio». Il termine “cane” indica in modo dispregiativo l’uomo prostituito. Si noti che è condannato anche solo il gesto di pietà di portare al tempio il dono di coloro che si sono macchiati del peccato della prostituzione sacra. Alla luce di tutto ciò è facile comprendere come il riferimento a 1 Re 14, 24 non prova affatto che la prostituzione sacra facesse parte del culto d’Israele, ma, al contrario, ci dimostra che era una deviazione dalla legge. Infatti Roboamo, figlio di Salomone, caduto nel paganesimo fu punito da Dio lasciando Israele in balia del faraone Sisach (XXII dinastia). Successivamente, tutte le deviazioni pagane verranno eliminate con la grande riforma religiosa operata dal re Giosia (2 Re 23, 1-25).

Mi sembra inutile continuare, credo che tutte queste evidenze dimostrino ampiamente che i vari L. Gardner, D. Brown e soci si siano inventato tutto.

giovedì 5 novembre 2015

Le persecuzioni dei cristiani, mito o storia?

Le continue violenze che i cristiani subiscono in ogni parte del mondo riportano alla mente i primi secoli dell’era cristiana quando le primitive comunità dovettero subire l’aggressiva intolleranza popolare e la dura persecuzione che diversi imperatori scatenarono contro di loro. Oggi, come allora, la fede in Cristo è ritenuta assurda e condannata in modo che i cristiani sono costretti a testimoniare la loro fede attraverso la terribile esperienza del martirio.  

Agli inizi dell’era cristiana le persecuzioni provennero unicamente dal Sinedrio di Gerusalemme, le autorità giudaiche si accanivano contro i cristiani accusandoli di empietà e bestemmia. Scoppiato un incendio a Roma nel 64 d.C. l’imperatore Nerone ne accusò i cristiani e organizzò la prima persecuzione, si trattava di trovare dei responsabili, così fu accusata la comunità cristiana una minoranza facilmente vulnerabile ed invisa alla popolazione. Da quell’episodio tutta una serie di uccisioni: nel 107 il vescovo di Antiochia Ignazio viene martirizzato a Roma, nel 155 viene ucciso il vescovo di Smirne, Policarpo, nel 177 vengono uccisi i martiri di Lione, nel 203 a Cartagine il martirio di Felicita e Perpetua e così via. Si trattò all’inizio di violenze ed uccisioni estemporanee per poi divenire organizzate e sistematiche nelle grandi persecuzioni di Massimino (235 d.C.), di Decio (250d.C.) e di Diocleziano e Galerio (303 d.C.).

Nonostante tali fatti siano largamente accettati dagli storici, ogni tanto saltano fuori delle analisi pseudostoriche che attaccano il cristianesimo per denigrarne i caratteri storici e trasformarli in miti. Si tratta di operazioni che affondano le loro radici nella falsa storiografia ottocentesca nata dalla corrente anticattolica dell’illuminismo. Nella fattispecie alcuni pseudostorici ridimensionano la portata delle persecuzioni che subirono i cristiani e le relega a semplici scaramucce tra l’autorità imperiale e bande di agitatori e sobillatori. E’ questo il caso, ad esempio, del libro “Il mito della persecuzione: come la prima cristianità ha inventato una storia di martirio” della prof.ssa Candida Moss ordinaria di Nuovo Testamento e Cristianesimo antico dell'Università di Notre Dame, Indiana, USA. Scrive la professoressa nel suo libro:

La storia tradizionale del martirio cristiano è errata. I cristiani non erano costantemente perseguitati, diffamati o presi di mira dai romani. Davvero pochi cristiani morirono, e quando morivano, venivano spesso condannati per quelle che nel mondo moderno chiameremo ragioni politiche. C'è una differenza tra persecuzione e processo. Un persecutore prende di mira rappresentanti di un gruppo specifico per una punizione immeritata meramente a causa della loro partecipazione in quel gruppo. Un individuo è processato perché quella persona ha infranto la legge […] convalidata e continua persecuzione. Gli striduli lamenti degli antichi cristiani che dicono che i romani erano sempre in agguato là fuori per catturarli erano   esagerati” (Candida Moss ”The Myth of Persecution: How Early Christians Invented a Story of Martyrdom” New York: HarperOne, 2013, pag. 159).

Indubbiamente le persecuzioni che subirono i cristiani nei primi tre secoli non furono continue, ai vari pogrom si alternarono lunghi periodi di tranquillità. Ciò non toglie, però, che anche in tali periodi i cristiani erano sempre potenzialmente perseguibili. Ciò è provato da molti documenti che testimoniano come i cristiani fossero costantemente in pericolo per la loro fede anche in periodi lontani dagli anni delle persecuzioni ufficiali. Il rescritto dell’imperatore Adriano a Minucio Fundano, proconsole d’Asia (Eusebio, HE IV, 9; Giustino, Apologia I, 68) con il quale, nel 122 d.C., si prescrive l’azione giudiziaria contro i cristiani solo sulla base di prove certe, quello dell’imperatore Traiano al governatore del Ponto e Bitinia, Plinio il giovane, del 112 d.C., (Plinio, Ep. X, 7) dello stesso tenore, oppure la raccomandazione, del 140 d.C., alle città greche, dell’imperatore Antonino Pio, di non fabbricare “storie” riguardo ai cristiani (Eusebio, HE IV, 26, 10) testimoniano come i cristiani fossero costantemente oggetto di denunce ed accuse da parte della popolazione pagana dell’impero. E queste reazioni degli imperatori provano come tali denunce non riguardarono presunte infrazioni della legge, ma partivano dal diffuso pregiudizio e dall’odio esistente allora verso i cristiani. E’ il famoso storico Tacito a darci prova di tale odio. Nei suoi Annali, scritti attorno al 112 d.C., descrive i cristiani (Ann. XV, 44) come invisi al popolo “a causa delle loro nefandezze”, e che la loro fede era una “esiziale superstitio”, vengono definiti “rei” e “meritevoli di pene severissime”, sono accusati di “odio del genere umano”. Ma non solo, molti altri li accusavano di costumi depravati, di omicidi rituali, di incesti. Illuminante, in tal senso, è la testimonianza di Minucio Felice, un apologista del II secolo, che nel suo Octavius riporta un’orazione contro i cristiani di un avvocato e retore, Frontone, nella quale vengono elencati tutta una serie di nefandezze, tra cui incesti ed omicidi rituali, di cui sarebbero responsabili i cristiani (Octavius VIII,4-IX,7). Quest’odio, talmente diffuso e radicato, giustifica ciò che, in quegli stessi anni, il cristiano Giustino di Nablus, rivolgendosi ad un altro accusatore del cristianesimo, il filosofo cinico Crescente, ebbe a dire: “Veramente è ingiusto ritenere per filosofo colui che, a nostro danno, rende pubblicamente testimonianza di cose che non conosce, dicendo che i Cristiani sono atei e scellerati; e dice ciò per ricavarne grazia e favore presso la folla, che resta ingannata” (II Apologia VIII).         
Proprio per quest’odio, nel 64 d.C., in occasione del grande incendio di Roma, l’imperatore Nerone ha gioco facile nell’incolpare i reietti cristiani, dando inizio così alla stagione delle persecuzioni anche in Occidente, dopo quelle che i primissimi cristiani subirono da parte della autorità ebraiche in Oriente. Ma, anche qui, secondo Candida Moss, esistono delle difficoltà, infatti scrive:

Nerone addossò la colpa e inflisse le più squisite torture su coloro che erano odiati per i loro abomini (pag. 138). Ciò non significa che questa storia sia completamente degna di fede. Bisogna esercitare qualche cautela quando si arriva a trattare Tacito. Gli Annali di Tacito risalgono agli anni 115-120, almeno 50 anni dopo gli eventi che descrive. Il suo uso del termine ''Cristiano'' è in qualche modo anacronistico. È altamente improbabile, al tempo in cui accadde il Grande Incendio, che qualcuno riconosca i seguaci di Gesù usando il nome ''Cristiani'' fino, come minimo, giusto alla fine del primo secolo.  Se i seguaci di Gesù non furono neppure identificati come cristiani, è altamente improbabile che i cristiani fossero ben noti e malvisti abbastanza da poterli Nerone selezionarli come capro espiatorio. Appare più probabile che la discussione di Tacito degli eventi di Roma intorno al tempo dell'Incendio rifletta la sua personale situazione intorno al 115. Tacito è evidenza della crescente animosità popolare verso i cristiani nel secondo secolo, ma egli non offre evidenza della loro persecuzione nel primo” (pag. 139).

Tesi, a mio avviso, insostenibile. Infatti non è storicamente possibile affermare che non siano esistiti cristiani a Roma nel 64 d.C. Innanzitutto abbiamo la lettera di Paolo di Tarso ai cristiani di Roma, comunemente datata al 57 d.C., che testimonia la presenza nella capitale dell’impero di un’importante comunità “nota in tutto il mondo per la loro grande fede” (Rm 1, 8). A conferma dell’esistenza di una comunità cristiana a Roma nel 64 d.C. anche la notizia presente negli Atti degli Apostoli (18, 1–2) che riguarda una coppia di coniugi giudeo-cristiani, Aquila e Priscilla, profughi provenienti da Roma in quanto espulsi dall’imperatore Claudio ed incontrati da Paolo di Tarso a Corinto. Notizia, tra l’altro, confermata dallo storico Svetonio (Vita di Claudio 25, 4). La Moss dice che Tacito è anacronistico a chiamare i cristiani in tal modo riferendosi al grande incendio di Roma del 64 d.C., ma non è solo lui a farlo. Anche Svetonio riporta di una persecuzione subita dai cristiani: “Furono puniti i cristiani, un gruppo di persone dedite a una superstizione nuova e malefica” (Nero 16, 2). Anche Svetonio si confonde? Improbabile. Svetonio ricoprì, fino all’anno 122 d.C., l’importante incarico di archivista (procurator a studiis), segretario (ab epistulis) e bibliotecario (a bibliothecis) dell’imperatore Adriano, ed anche Tacito ricoprì ruoli molto importanti. Fu pretore, oratore, consul suffectus e proconsole in Asia e per la sua posizione politica, aveva accesso agli acta senatus, ovvero i verbali delle sedute del senato romano, e gli acta diurna populi Romani, ovvero gli atti governativi e le notizie su ciò che accadeva giorno per giorno. Appare estremamente improbabile che personalità del genere potessero incorrere in errori storici così grossolani.

A differenza delle comunità ebraiche sparse in tutto l’impero, sempre turbolente e di difficile gestione da parte delle autorità romane, come conferma la notizia di Svetonio (Nero 16, 2), i cristiani viceversa sono descritti dalle fonti come gente pacifica e rispettosa delle leggi. Ad esempio Eusebio ci narra dei controlli fatti eseguire dall’imperatore Domiziano sulle prime comunità giudeocristiane che accertano solo la presenza di pacifici contadini (Eusebio, H. E. III, 19.20, 1-6), le indagini del governatore della Bitinia, Plinio il giovane, che testimoniano gli usi e i costumi assolutamente pacifici dei cristiani (Epist. X, 96, 1-9), le notizie di pacifismo e virtù dei cristiani in Galeno (De sentent. Pol. Plat), Luciano di Samosata (De morte Per. XI-XIII), ecc. I cristiani non intendono affatto sovvertire l’ordine costituito: Paolo raccomanda la fedeltà alle istituzioni civili (Rm 13, 1) e che si preghi affinché i governanti possano agire con giustizia (1 Tm 2, 1-2). Ma, allora, da dove tutto l’odio che i cristiani si sono attirati fino ad arrivare alle persecuzioni sistematiche? Il fatto è che i cristiani non possedevano alcuno statuto giuridico all’interno dell’impero, agli occhi dei pagani costituivano un culto sconosciuto, straniero che non corrisponde alla tradizione degli antenati e che non ha ricevuto pubblico riconoscimento. Infatti fin dall’epoca antica presso i romani vigeva la prescrizione, attribuita al re Numa e riportata da Cicerone, che: “Nessuno abbia proprie divinità nuove o straniere, non riconosciute pubblicamente” (De legibus II, 8, 19). Gli ebrei erano, invece, dispensati dal culto ufficiale per il rispetto dovuto alla loro religione. Tacito scrive, infatti: “I riti dei Giudei, ad esempio, per quanto diversi da quelli di tutti gli altri popoli, vanno difesi per la loro antichità” (Historiae, V, 5, 1). Tutto ciò spiega il fatto che gli ebrei non furono mai perseguitati per la loro religione, ma solo perché perturbatori dell’ordine costituito.


L’atteggiamento dei cristiani, invece, fu sempre caratterizzato da un lealismo verso l’impero e da ostilità verso le pratiche religiose da esso imposte. Ciò procurò loro, nei primi secoli, disprezzo e qualche persecuzione, ma col passare del tempo, l’indebolimento e lo sfaldamento della società pagana, la minaccia dei nemici alle frontiere, indusse gli imperatori a puntare sulla religione degli antenati come elemento di coesione nazionale, quindi iniziarono le grandi persecuzioni sistematiche. Ma fu un tentativo disperato che fallì miseramente perché anacronistico, il cristianesimo aveva già fatto conoscere l’umanità e la giustizia sociale di cui la società pagana era drammaticamente carente e nessuno era ormai disposto a tornare indietro.



Bibliografia

M. Sordi “Il cristianesimo e Roma” Cappelli, Bologna, 1965;
S. Prete “Cristianesimo e impero romano” Patron, Bologna 1974;
A. Amore “I martiri di Roma” Antonianum, Roma, 1975;
J. Moreau “La persecuzione del cristianesimo nell’impero romano” Paideia, Brescia, 1977;
G. Jossa “I cristiani e l'impero romano da Tiberio a Marco Aurelio” Carocci, Roma, 2000;
A. Sacchi “Lettera ai Romani” Città Nuova 2000;
A. Pitta “Lettera ai Romani” Edizioni Paoline 2001;
M. Sordi “I cristiani e l’impero romano” Editoriale Jaca Book Spa, Milano 2004.
www.Christianismus.it

mercoledì 28 ottobre 2015

Finalmente un freno alla violenza laicista

Finalmente una buona notizia per tutti coloro che hanno a cuore la legalità, il rispetto della democrazia e dei valori fondamentali della persona umana. Il Consiglio di Stato, con una sentenza ineccepibile, ha fatto giustizia della follia laicista di sindaci e tribunali amministrativi ribadendo che i prefetti, su indicazione del ministro, hanno piena e legittima facoltà di cancellare le sciagurate trascrizioni, operate da alcuni sindaci, dei matrimoni tra persone dello stesso sesso celebrati all'estero.

Il Consiglio di Stato non ha fatto altro che garantire l'applicazione della legge vigente, eppure tutto ciò non ha mancato di suscitare l'immancabile protesta delle forze laiciste e delle associazioni gay che hanno parlato di sentenza retrograda, contro il diritto delle persone. Ovviamente non c'è da stupirsi di una posizione simile, vista l'abitudine di tali soggetti a calpestare le leggi e a farsi beffe della legalità, ma ciò che fa restare letteralmente allibiti è l'assurda opera di denigrazione compiuta dagli avvocati di "Avvocatura per i diritti Lgbt, Rete Lenford" nei confronti di un giudice del Consiglio, il Dott. Carlo Deodato, che, per il solo fatto di essere di fede cattolica, è stato accusato di non avere la necessaria serenità di giudizio e ritenuto incompatibile con l'ufficio svolto. Una polemica veramente triste e senza senso, la sentenza del Consiglio è frutto di un provvedimento assunto collegialmente dall'intera Corte e non da un solo giudice e si è trattato di una sentenza che ha solo preso atto del fatto che in Italia non esiste il matrimonio tra persone dello stesso sesso ed è quindi impossibile una loro trascrizione. I sindaci che lo avevano fatto, non ne avevano assolutamente l'autorità, in una democrazia non è possibile scavalcare il legislatore. Ma, sembra, che per i laicisti questi siano concetti ben poco assimilati. 

Bisogna, purtroppo, constatare che questa aggressione nei confronti del giudice Deodato è semplicemente vergognosa e costituisce l'ennesimo episodio della violenza e della prevaricazione laicista presente in Italia. 

giovedì 15 ottobre 2015

Parte II - Le origini

Per poter costruire una base alla sua teoria della chiesa alternativa a quella Cattolica retta dai discendenti di Gesù, D. Brown, riprendendo teorie già propugnate da M. Baigent, R. Leigth, H. Lincoln e L. Gardner, si spinge addirittura alle origini della fede ebraica insinuando che tutto l’Antico Testamento è pervaso esotericamente da riferimenti al culto della dea. L’ambiente in cui vivevano gli Israeliti, la terra di Canaan, era dominata dai culti pagani dei vari popoli che l’abitavano. Questi erano caratterizzati dall’adorazione di divinità di entrambi i sessi. Dall’unione del dio maschio (sole, cielo) con il dio femmina (terra, mare) scaturiva la vita. Secondo L. Gardner, a seguito dell’influenza di tali culti, la Bibbia, in Genesi 1, 1-2, attribuisce la creazione all’unione tra il dio maschio Geova (lo spirito di Dio che aleggiava sulle acque) e la sua sposa Matronit (le acque). In questo passo sarebbe chiaramente indicato che le acque non vengono create, ma già preesistevano. A conferma di ciò D. Brown afferma che il nome stesso di Dio, il sacro tetragramma YHWH, deriva da “Jehovah”, androgina unione fisica tra il maschile “Jah” e il nome preebraico di Eva, “Havah”. Anche per L. Gardner, in “La linea di sangue del santo Graal”, il sacro tetragramma, non è altro che un esoterico riferimento ai quattro membri della famiglia celeste: “Y” rappresentava El, cioè il padre, “H” Asherah, la madre, “W” sarebbe He, il figlio e “H” era la figlia, Anath. La storia di Adamo ed Eva sarebbe, in realtà un retaggio dei culti babilonesi, solo che la tradizione ebraica ha estromesso la figura di Lilith, prima moglie di Adamo, la quale reputandosi uguale a lui, viene scartata per la più sottomessa Eva. A parere di L. Gardner, Lilith ha sempre rappresentato, in tutta la storia fino ai giorni nostri, l’etica fondamentale dell’opportunità femminile. 

Bel fuoco di fila di imprecisioni storiche e sciocchezze varie. Cominciamo col dire che la questione riguardante la supposta influenza pagana nella formazione dell’Antico Testamento non è una novità, ma è stato ed è argomento tra i più trattati nello studio della Scrittura e, sicuramente, con ben altra serietà e competenza che non quella mostrata da D. Brown e dalle sue fonti. Infatti, già all’inizio del secolo scorso uno studioso protestante, Wellhausen (1) propose la teoria secondo la quale la religione ebraica ha seguito una linea “evoluzionistica” distinguendo una religione “pre-Mosaica” (animismo, totemismo), una “Mosaica” (monolatria) (2), una “profetica” (monoteismo etico) (3) ed una “post-esilica” (nomismo e culto della Legge e del sacrificio). Questa teoria ha però dei punti deboli, infatti nella religione di Israele non troviamo mai traccia di animismo e totemismo, la religione dei patriarchi non è mai in antitesi con quella dei profeti e del post-esilio. La tentazione maggiore è quella di cadere nell’errore di ricostruire la religione dalle deviazioni religiose popolari e, quindi, identificarle con la rivelazione divina. Certamente c’è stata una evoluzione nella religione d’Israele, ma omogenea. E’, quindi, più corretto parlare di una stessa rivelazione che viene gradualmente svelata fino alla forma più piena. La vera antitesi la si può constatare sempre tra gli Israeliti e i Cananei, quindi tra il popolo di Dio e i pagani che abitavano la terra promessa, cioè la Palestina.

Nell’Antico Testamento ritroviamo sicuramente strutture narrative che ricalcano elementi della letteratura Sumerico-Accadica (4), ma rappresentano solo una modalità di espressione per veicolare una sostanza che è invece unica. Anzi queste analogie ci aiutano a discernere quello che era comune agli ebrei e agli altri popoli e quello che invece era loro specifico. La sostanza unica, che non ritroviamo altrove, è la concezione che Dio è unico e ha fatto tutto, che c’è stato un intervento particolare per l’uomo, una felicità ed un ordine originari che l’uomo ha rovinato con il suo peccato, e la promessa del Redentore. Nella Bibbia Dio si svela attraverso le categorie umane, attraverso persone umane che vivono in una determinata civiltà, in determinati ambienti i quali hanno determinate concezioni. Le concezioni sono uguali per tutti i popoli circostanti, mentre la rivelazione di Dio vera e propria si distingue da tutti gli altri scritti.

Alla luce di quanto esposto appaiono ridicole le astruse affermazioni di D. Brown e compari. Infatti, l’interpretazione di Genesi 1, 1-2, “In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque”, è totalmente sbagliata. Il cielo e la terra sono termini che rappresentano tutto l’universo ordinato, e quindi anche le acque, creato da Dio. Il verbo creare, qui usato, traduce l’originario ebraico “barà” che nella Bibbia è riservato solo a Dio. E’ l’azione creatrice di Dio distinguendola dall’azione produttrice dell’uomo. Ciò vuol dire che Dio è l’inizio di tutto e che prima non esisteva niente. I termini che compaiono nel versetto 2, cioè informe (in ebraico "tohù" = vuoto), deserto, tenebre, abisso e acque sono immagini tipicamente semite che esprimono il concetto del nulla, dell’inesistente e, quindi, preparano la nozione di creazione a partire dal nulla. Lo spirito di Dio che aleggia sulle acque è, quindi, un’immagine che vuole dirci che al principio l’unica esistenza era quella di Dio. La creazione è infatti descritta solo a partire dal versetto 3 “Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu….” ed è operata dalla sua Parola, il primo versetto è infatti solo un titolo. Tutto ciò in perfetta analogia con quanto scritto da Giovanni nel suo Vangelo (Gv 1, 1-3) “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste”.

Povero D. Brown, la storiella di Geova è patetica. A parte il fatto che il nome ebraico di Eva (non esiste un nome pre-ebraico) non è “Havah”, ma “hawwâ” che significa “madre dei viventi”, è stato comunque, ormai da tempo, accertato che il termine Jehovah, in italiano Geova, è una errata traduzione del Sacro Tetragramma. Gli Ebrei scrivevano solo le consonanti delle parole, così anche il nome divino “Colui che è” (Esodo 3, 13-16) era scritto sempre e solo con le quattro lettere YHWH. Lo scriba, o chiunque sapeva leggere, aggiungeva le vocali appropriate alle consonanti, più o meno come facciamo noi con gli accenti delle parole. Ad esempio se troviamo scritto casa (senza accento) lo leggiamo come se l’avesse, ossia, càsa. L’ipotesi filologica moderna più largamente accettata propone l’uso delle vocali “a” ed “e”, cosicché il Sacro Tetragramma va pronunciato Yahweh. Il termine Jehovah, in italiano Geova, non è mai esistito nella scrittura, è un errore di traduzione postumo. L’origine di tale errore deriva dal fatto che gli Ebrei, per un eccessivo rispetto, leggendo la Scrittura evitavano di pronunciare il nome divino e a posto del sacro tetragramma leggevano come se fosse scritto Adonày, che significa Signore, cioè un nome più generico di Dio. Verso la fine del primo secolo dopo Cristo, con la dispersione dei Giudei in seguito alla distruzione di Gerusalemme, ad opera dei Romani nel 70 d.C., la lingua ebraica andò lentamente cadendo in disuso. Le nuove generazioni parlavano e leggevano le lingue dei popoli presso i quali erano dispersi (greco, latino) e diventava sempre più difficile leggere l’ebraico, cioè sapere come vocalizzare i vari termini. Per porre un rimedio alcuni dotti rabbini, detti masoreti, nel VI secolo dopo Cristo, iniziarono un lavoro di vocalizzazione della Scrittura. Arrivati al sacro tetragramma, siccome gli Ebrei leggevano sempre Adonày, a differenza, ad esempio, dei Samaritani che preferivano vocalizzare il sacro tetragramma, i masoreti lo tradussero usando proprio le vocali di Adonày, cioè “a”, “o”, “a”. Essendo la prima “a” una semivocale, questa si leggeva come una “e”, e così, da questo miscuglio, venne fuori il suono Jehovah cioè Geova (Emil G. Hirsch, "Jehovah" su Jewish encyclopedia, Jewish encyclopedia.com, 1901-1906). L’autorevole “Dizionario biblico” di J. McKenzie dice: "La pronuncia Geova è un errore risultante dalla combinazione delle consonanti J H W H con le vocali di Adonày , Signore, che i Giudei, leggendo le Scritture, sostituivano al Nome sacro, detto comunemente tetragramma".

In realtà già in Clemente Alessandrino, un Padre della Chiesa vissuto tra la fine del secondo secolo e l’inizio del terzo, la trascrizione del sacro tetragramma è “Jaoué”. Epifanio, morto nel 403 d.C., e Teodoreto, vescovo di Ciro, morto nel 438 d.C., utilizzarono “Jabé” o “Jaué” o “Jao” in quanto dicono di riferire la pronuncia tradizionale presso i Samaritani (Wilhelm Gesenius "Hebrew lexicon" tradotto da Edward Robinson, Oxford: The Clarendon Press, 1906). Quindi non c’è alcun dubbio che prima del lavoro dei masoreti i Giudei pronunciavano il sacro tetragramma “Jaoué” o“Jabé”, che trascritto in italiano diviene Jahvé. L’interpretazione del sacro tetragramma che fornisce L. Gardner è, invece, un guazzabuglio di politeismo ed interpretazione cabalistica. Infatti alcune tradizioni postume, riconducibili alla Kabalah ebraica, individuano come Madre e Figlia, la Y e come Padre e Figlio la W, ma le attribuzioni ad Asherah ed Anath sono frutto della fervida fantasia di L. Gardner, se non altro perché la cosa risulterebbe gravemente blasfema per qualsiasi ebreo, anche per quelli cabalistici.

Infine il riferimento alla figura di Lilith, sempre di L. Gardner, non fa altro che creare confusione. E’ vero che durante il soggiorno forzato degli Ebrei in Babilonia (cattività babilonese 597 - 539 a.C.), la cultura ebraica entrò in contatto con il culto di Lilith, ma essendo considerata una demonessa alata, i riti delle sacerdotesse lilithiane non erano ben visti dalla religione ebraica. Caduta Babilonia ad opera di Ciro II il Grande, il nome di Lilith venne usato in maniera dissacratoria dagli Ebrei per descrivere le “civette del deserto”. Ciò è documentato in Isaia 34,14 dove è scritto che Lilith farà il suo nido nel deserto, laddove ora giacciono le rovine della città del peccato Edom (Schrader "Jahrbuch für Protestantische Theologie", 1. 128; Levy "ZDMG" 9. 470, 484). L’affermazione, poi, che Lilith ha sempre rappresentato, in tutta la storia fino ai giorni nostri, l’etica fondamentale dell’opportunità femminile, non è altro che una sciocchezza astrologico-femminista di concezione tipicamente occidentale che non ha nulla a che vedere con la cultura ebraica.

Note

(1) Wellhausen per la prima volta raccoglie tutti i contributi degli studi precedenti (De Wette, Reuss, ecc…) per esporli in maniera compiuta. Egli individua nella composizione dell’Antico Testamento quattro documenti: quello Jahwista, quello Elohista, quello Deuteronimista e quello Sacerdotale (il Priester Codex). Teoria che, seppure con i suoi limiti, ha avuto storicamente la sua validità, cioè ha aiutato a leggere ed interpretare la Scrittura con spirito più critico e meno ingenuo. Wellhausen non tiene conto, però, della tradizione orale che era molto importante presso i semiti. Oggi si tende a considerare maggiore l’importanza delle tradizioni orali che poi vanno a confluire nei documenti scritti;
(2) Adorazione di un unico Dio non concepito come unico Dio;
(3) Un solo Dio che dà la Legge e s’interessa alla vita conforme alla Legge;
(4) Ad esempio il poema “Enuma Elish” descrive la creazione con le stesse concezioni cosmologiche della Bibbia, il poema “Enki e Ninhursag” contiene analoghe concezioni del paradiso terrestre, oppure l’epopea di Gilgamesh con la narrazione del diluvio. 

mercoledì 7 ottobre 2015

La scomoda libertà d'opinione

Stamattina su tutti i media viene riportata la notizia delle sconcertanti dichiarazioni fatte da un certo don Gino Flaim, collaboratore pastorale della chiesa San Pio X di Trento, che, ai microfoni di «L’aria che tira», trasmissione su La 7, ha cercato di giustificare la pedofilia e, incalzato dall’intervistatore, ha anche espresso l’opinione che l’omosessualità possa essere una malattia. Pronta è stata la reazione bipartisan di tutte le forze politiche che hanno condannato in toto le parole del sacerdote ed anche fulminea è stata la presa di posizione dell’arcidiocesi di Trento che si è dapprima dissociata dalle dichiarazioni del sacerdote, poi lo ha destituito da ogni incarico e dalla facoltà di predicazione. 

Non si può non plaudire alla tempestività dell’arcidiocesi di Trento che è giustamente intervenuta a reprimere immediatamente l’attività di una persona potenzialmente pericolosissima, che di cristiano non ha nulla, e che, purtroppo, nello svolgimento delle sue attività potrebbe anche essere stato o venire a diretto contatto con ragazzi e bambini. E’ veramente grave, e molto triste, che esistano esponenti della Chiesa, appartenenti al clero, capaci di avere ancora una mentalità giustificazionista verso reati così odiosi come la pedofilia. 

C’è, però, un aspetto in questa vicenda che mi lascia perplesso: la condanna del sacerdote, giusta e sacrosanta, espressa dai media non ha solo interessato le dichiarazioni sulla pedofilia, ma ha anche coinvolto l’opinione espressa nei confronti dell’omosessualità. Non trovo affatto giusto mettere le due opinioni sullo stesso piano e condannare il tutto come se avessero lo stesso peso. E’ certamente giusto e doveroso scandalizzarsi e condannare la difesa della pedofilia, un reato tra i più spregevoli, ma non lo è censurare l’opinione sull’omosessualità. Il sacerdote ha detto che ritiene l’omosessualità una malattia, ebbene cosa c’è di male in tale affermazione? Non si è trattato di un’offesa alle persone, degne di ogni rispetto, ma di un giudizio sull’omosessualità. Tanto più che tale affermazione non è neanche tanto peregrina, così come i media vogliono farla passare. Mi sembra utile ricordare che solo fino al 1991 l’omosessualità compariva nel Manuale Diagnostico dei disturbi mentali e che da questo è stata depennata a seguito di una semplice votazione, senza che sia mai stata addotta una motivazione scientifica. Non a caso l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che ha definito l’omosessualità una variante naturale del comportamento umano, non è mai riuscita ad individuarne la causa, il che equivale alla formulazione di un dogma vero e proprio. Come si fa a stabilire scientificamente un effetto, se non si conosce la causa che lo ha determinato?

E’ palese la profonda differenza tra le due affermazioni, ma nessun organo d’informazione si è curato di fare gli opportuni distinguo, così è passato il messaggio che considerare l’omosessualità una malattia, un disturbo, equivalga a giustificare un reato. Invece si è trattato di un’opinione che, non coinvolgendo direttamente alcuna persona, per quanto si possa ritenere sbagliata e distante dal proprio pensiero, deve poter essere espressa. Il pericolo insito in queste operazioni mediatiche di pubblico sdegno e condanna, anche ampiamente giuste e motivate, è quello della loro strumentalizzazione laddove finisce in un unico tritacarne ogni espressione del pensiero, anche quando questo è lecito e, per questo, da rispettare.

lunedì 28 settembre 2015

L'iconoclastia e la proibizione delle immagini sacre

Con questa eresia affrontiamo un argomento molto sentito nell’ambito delle religioni che è quello della liceità o meno del culto delle immagini sacre. Come è noto una grande religione tipicamente iconoclasta è l’Islam dove non solo è proibita ogni raffigurazione di Dio (Allah), ma lo sono anche quelle del profeta Maometto. Anche in ambito cristiano vige una rigorosa proibizione delle immagini sacre in moltissime confessioni protestanti e tale convinzione è spesso oggetto di polemica con il cattolicesimo. 

Questa convinzione della necessità di distruggere le immagini sacre nasce nella prima metà dell’ottavo secolo e prese l’avvio come un movimento politico-religioso che si sviluppò nell’impero bizantino fino a quando il Concilio Niceno II del 787 non concluse, dal punto di vista dommatico, questa controversia. Il termine “iconoclastia” viene dal greco “eikon”, che significa “immagine”, e “klaio”, che significa “spezzare”, per cui gli iconoclasti sono coloro che “spezzano le immagini” e non solo in senso figurato, ma storicamente anche in senso materiale, così come tristemente testimoniano le odierne notizie delle distruzioni nei siti archeologici siriani da parte dei fanatici terroristi islamici. 

Presso le comunità cristiane, fin dagli albori, le immagini erano sempre state in uso, basta pensare alle catacombe, risalenti al II e III secolo, nelle quali troviamo affreschi rappresentanti Cristo o la Beata Vergine Maria e, secondo la disciplina dell’arcano, diversi simboli come i pesci, il pane e l’ancora. Dopo l’editto di libertà di Costantino del 313 d.C. tali raffigurazioni cominciarono a diffondersi maggiormente con l’inizio dell’edificazione delle chiese. La furia iconoclasta, quindi, piomba sulla cristianità in modo del tutto inaspettato e prende storicamente l’avvio dall’iniziativa di un imperatore bizantino, Leone III Isaurico, salito al trono nel 717, che nel 726 emanò il primo editto iconoclasta. Tutte le immagini sacre dovevano essere distrutte, a cominciare proprio da un’immagine di Cristo, a quel tempo molto venerata a Costantinopoli, che era posta sulla porta del palazzo imperiale, la Chalké

Gli storici hanno molto dibattuto su quali potessero essere state le cause di questa clamorosa iniziativa di Leone III e l’opinione più accreditata conferisce all’operato dell’imperatore una connotazione quasi prettamente politica. Questa svolta iconoclasta viene per lo più considerata come un estremo tentativo dell’imperatore di proteggere l’unità dell’impero assecondando l’ormai diffusa condanna delle immagini sacre che si era sviluppata nella parte orientale dell’impero ed era appoggiata dai vescovi dell’Asia Minore, primo fra tutti Costantino di Nicoleia, e dovuta alle forti pressioni operate dagli Arabi musulmani e dal notevole diffondersi del Paulicianesimo, un movimento cristiano eretico, che abbiamo già vistoanch’esso fortemente contrario al culto delle immagini sacre. Ma anche la figura stessa dell’imperatore, la sua formazione ed ambizione, ebbero il loro peso. Leone III aveva una formazione intellettuale manichea, per cui riteneva la materia come maligna, e monofisita, cioè considerava la natura di Cristo unicamente come divina, quindi riteneva senza senso rappresentare la sua natura umana. Ma oltre a tutto ciò non è da sottovalutare anche la volontà tipica degli imperatori di ritenersi dei grandi riformatori religiosi e di estendere, così, il loro potere anche sul sistema dei monasteri, grandi “produttori” di icone sacre. 

Nel 726, quindi, iniziarono le distruzioni delle immagini sacre, vengono strappate dai manoscritti le figure di Cristo e dei santi, le reliquie vengono gettate in mare e ciò provocò la distruzione di un ingentissimo patrimonio letterario ed artistico. Coloro che resistono a tali distruzioni vengono perseguitati, imprigionati, torturati ed anche uccisi. Anche il patriarca di Costantinopoli, che non era contrario al culto delle immagini, viene esiliato e sostituito con un altro patriarca, Anastasio, favorevole all’imperatore (Georg Ostrogorsky, "Storia dell'Impero bizantino", Milano, Einaudi, 1968, pag. 150). Nonostante tutto ciò si registrarono rivolte popolari e, soprattutto, la riflessione dei vescovi e dei grandi teologi, tra cui soprattutto Giovanni Damasceno, che combattono questa furia iconoclasta affermando che non esiste alcuna adorazione delle immagini, cioè una “iconolatria”, dal greco “latria”, adorazione, ma una venerazione, cioè una “iconodulia” dal greco “dulia” che ha, appunto, tale significato. La venerazione non riguarda l’immagine in sé, ma è in vista di chi viene rappresentato, quindi, il culto delle immagini è un culto relativo, intendendo le immagini come un ponte, un momento di passaggio a chi da questa immagine era rappresentato.

I papi del tempo condannarono subito l’iconoclastia. Gregorio II, che fu papa dal 715 al 731, condannò l’editto di Leone III, e il suo successore, Gregorio III, che fu papa dal 731 al 741, ribadì tale condanna. L’imperatore reagì violentemente a queste censure tanto che progettò di far uccidere Gregorio II e s’impadronì dei possessi papali in Calabria e in Sicilia (Giorgio Ravegnani "I bizantini in Italia" Bologna, il Mulino, 2004 pp. 128-129). Il successore di Leone III, Costantino V, continuò la persecuzione e solo con il suo successore, Leone IV, salito al trono nel 775, si ebbe un rallentamento di questa lotta iconoclasta. Alla sua morte, nel 780, prese il potere la moglie Irene che aveva la reggenza del figlio minore Costantino VI. D’accordo con il papa, nel 787, si convocò il Concilio Niceno II che, presieduto dal patriarca di Costantinopoli Taraso, eletto col favore dell’imperatrice, alla presenza di oltre trecento vescovi, più i legali del papa, che a quel tempo era Adriano I, e i rappresentanti imperiali, dichiara legittima la venerazione delle immagini sacre arrivando ad una definizione che rimarcò la netta differenza tra venerazione ed adorazione. Ma la situazione fu ben lontana dall’essersi risolta, infatti nell’814 l’imperatore Leone V l’Armeno, preoccupato dalla tensione portata dagli sfollati di fede iconoclasta, che provenivano dalle terre occupate dagli Arabi, pensò di risolvere i dissidi reintroducendo un regime iconoclasta. Dopo alterne vicende, però, nell’842 la questione si risolse definitivamente quando l’imperatrice Teodora, reggente per il figlio minorenne Michele III, contraria alla politica iconoclasta, depose il patriarca Giovanni VII Grammatico e lo sostituì con l’iconodulo, cioè favorevole alla venerazione delle immagini sacre, Metodio I, che condannò per sempre l’iconoclastia.

Da un punto di vista prettamente biblico l’iconoclastia troverebbe il suo fondamento nella proibizione, presente nella Torah, nel Vecchio Testamento e nel Corano, di qualunque rappresentazione artistica dell’aspetto fisico di Dio (Esodo 20, 1-6). Questo comandamento fu, quindi, ripreso in senso anticattolico proprio dalla Riforma protestante nel XVI secolo, non tanto da Martin Lutero, quanto piuttosto da Huldrych Zwingli, che esclude le immagini dal protestantesimo svizzero, e da Andrea Carlostadio, per quanto riguarda la Germania. La Chiesa Cattolica reagì a tali impostazioni con il Concilio di Trento che, richiamando il secondo Concilio di Nicea, affermò che alle immagini sacre: “si deve attribuire il dovuto onore e la venerazione: non certo perché si crede che vi sia in esse una qualche divinità o virtù, per cui debbano essere venerate; o perché si debba chiedere ad esse qualche cosa, o riporre fiducia nelle immagini, come un tempo facevano i pagani, che riponevano la loro speranza negli idoli, ma perché l’onore loro attribuito si riferisce ai prototipi, che esse rappresentano. Attraverso le immagini, dunque, che noi baciamo e dinanzi alle quali ci scopriamo e ci prostriamo, noi adoriamo Cristo e veneriamo i santi, di cui esse mostrano la somiglianza. Cosa già sancita dai decreti dei concili - specie da quelli del secondo concilio di Nicea - contro gli avversari delle sacre immagini” (Concilio di Trento, Sessione XXV, 3-4 dicembre 1563).

I protestanti leggono il comandamento di Esodo 20 in modo troppo esclusivo. In realtà la proibizione delle immagini sacre non è assoluta, infatti in molte parti della Bibbia le immagini, se non hanno a che vedere con l’adorazione degli idoli, sono ampiamente permesse. E’ il caso, ad esempio, di Esodo 26, 1 dove Dio comanda a Mosè di costruire l’arca dell’alleanza e di collocarvi delle immagini come quelle dei cherubini, oppure Numeri 21, 4-9 dove Dio comanda la costruzione del serpente di bronzo. Proprio a questo episodio si ricollega Gesù nel suo discorso notturno con Nicodemo applicando a sé questa profezia: “Come Mosè innalzo il serpente nel deserto, così deve essere innalzato il figlio dell’uomo perché chiunque creda in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3, 1-21). La prescrizione dell’Esodo, quindi, riguardava un popolo primitivo, di dura cervice, che abitando in mezzo a popoli idolatri non riusciva a distinguere tra immagine e l’archetipo che l’immagine stessa rappresentava. E’ l’incarnazione del Cristo a gettare una luce nuova, la legge mosaica viene superata, la vera conoscenza i Dio libera dalla idolatria. Alla Parola, che unicamente caratterizza l’antica alleanza, fa seguito la visione di Cristo che si percepisce con i sensi. Egli è l’immagine del Padre e dice: “Chi vede me, vede il Padre” (Gv 14, 9).

Nel Concilio di Calcedonia, del V secolo, la vera umanità di Cristo è stata affermata come sussistente nella sua persona divina. L’immagine racchiude una sorta di presenza dell’essere rappresentato: in questo senso può diventare oggetto di venerazione. Si venera, comunque, non il significante, ma il significato: nell’incarnazione Dio è voluto diventare visibile: l’immagine è spiritualizzata e trasfigurata per condurci alla contemplazione dell’invisibile. 


Bibliografia

Georg Ostrogorsky, "Storia dell'Impero bizantino", Torino, Einaudi, 1968;
G. Larentzakis, "La controversia delle immagini", in Storia della chiesa cattolica, Ed. Paoline, Milano 1989;
P. A. Yannopoulos, "Il secondo concilio di Nicea (786-787) o Settimo concilio ecumenico", in Storia dei concili ecumenici (a cura di G. Alberigo), Queriniana, Brescia 1990;
Marcello Craveri, "L'eresia. Dagli gnostici a Lefebvre, il lato oscuro del cristianesimo", Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1996;
Giovanni Filoramo, D. Menozzi (a cura di), "Storia del Cristianesimo", I, Roma-Bari 1997;
Giorgio Ravegnani "I bizantini in Italia" Bologna, il Mulino, 2004.
https://it.wikipedia.org/wiki/Iconoclastia

venerdì 18 settembre 2015

Le bugie della ministra

"E' una colossale truffa, pronti alla denuncia!" Piomba fragoroso sugli italiani lo strale minaccioso del ministro dell'istruzione Stefania Giannini. Non piace al ministro la critica che viene rivolta alla nuova riforma della scuola secondo la quale, con tale norma, sarebbero stati introdotti nei piani formativi, in modo subdolo ed arbitrario, i principi ispirati alla cosiddetta "teoria del gender". Il ministro è deciso: "Si tratta di una colossale truffa ai danni della società. Facciamo circolare chiarimenti, lanciamo messaggi chiari ma se ciò non dovesse bastare credo ci sia una responsabilità irrinunciabile di passare a strumenti legali"

Ovviamente niente di nuovo sotto al sole. Se ci si permette di dissentire e far valere le proprie ragioni, la tipica reazione laicista è sempre la stessa: repressione del libero pensiero. Ma andiamo avanti. Quali sarebbero questi messaggi chiari? Il 15 settembre scorso il Ministero dell'istruzione ha emanato una circolare  dove viene ribadito che "tra le conoscenze da trasmettere non rientrano in nessun modo né “ideologie gender” né l’insegnamento di pratiche estranee al mondo educativo". Sarà vero tutto questo? Sfidando le ire del ministro proviamo a vederci chiaro.

Come è noto ciò che ha destato le preoccupazioni maggiori è stato il controverso comma 16 dell'art. 1 della legge 107/2015, cioè la cosiddetta "Buona Scuola", il quale assicura l’attuazione dei principi delle pari opportunità con la promozione “dell’educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni, al fine di informare e di sensibilizzare gli studenti, i docenti e i genitori sulle tematiche indicate dall’articolo 5, comma 2, del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93”. I principi ispiratori di questa "buona educazione", quindi, sarebbero quelli di questo famigerato articolo 5, comma 2, che, alla lettera c) dispone di "promuovere un'adeguata formazione del personale della scuola alla relazione e contro la violenza e la discriminazione di genere e promuovere, nell'ambito delle indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell'infanzia e del primo ciclo di istruzione, delle indicazioni nazionali per i licei e delle linee guida per gli istituti tecnici e professionali, nella programmazione didattica curricolare ed extra-curricolare delle scuole di ogni ordine e grado, la sensibilizzazione, l'informazione e la formazione degli studenti al fine di prevenire la violenza nei confronti delle donne e la discriminazione di genere, anche attraverso un'adeguata valorizzazione della tematica nei libri di testo". Abbiamo, così, una chiara disposizione di promuovere la formazione di docenti e studenti, dall'asilo d'infanzia fino ai licei, con opportune "valorizzazioni" dei libri di testo, al fine di combattere la discriminazione di "genere". Ma cosa s'intende per "genere"? 

La circolare ministeriale della nostra irosa ministra, oltre ad affermare che la "teoria del gender" non c'entra niente, contemporaneamente afferma anche che "le due leggi citate come riferimento nel comma 16 della legge 107 non fanno altro che recepire in sede nazionale quanto si è deciso nell’arco di anni, con il consenso di tutti i Paesi, in sede Europea, attraverso le Dichiarazioni, e in sede Internazionale con le Carte". E quali sarebbero queste Carte? La circolare, quasi con pudore, riporta in nota, scritto molto in piccolo, che tale Carta non sarebbe altro che il testo della Convenzione di Istanbul redatta l'11 maggio del 2011, ratificata e resa esecutiva dal Parlamento Italiano con la legge n°77 del 27/6/2013. Quindi per la Circolare ministeriale occorre rifarsi a tale Convenzione per sapere cosa s'intende per "genere". Ed eccoci, finalmente, al momento di scoprire le carte: secondo la Convenzione, così come riportato dall'art. 3 della legge n°77 del 27/6/2013, per "genere": "ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini". Quindi un chiaro riferimento al filone dei "gender studies", per cui essere uomini o donne non sarebbe un’attribuzione naturale e biologica, ma una costruzione sociale.
Fino a prova contraria quindi, “sensibilizzare gli studenti, i docenti e i genitori” al nuovo approccio “gender” è indiscutibilmente previsto nella riforma della "Buona Scuola". Ma come? Il ministro dell'istruzione non ci aveva forse raccontato che questa "teoria del gender" non c'entrava niente? Ma, allora, chi è che ha veramente truffato? 

Purtroppo questa riforma della scuola non è altro che l'ennesimo esempio della prevaricazione laicista che pretende di imporre principi educativi del tutto opinabili, che niente hanno a che fare con risultati scientificamente certi, guardandosi bene dal farlo alla luce del sole, ma attraverso manovre oscure e subdole.

mercoledì 16 settembre 2015

Parte I - Ma che dice “Il Codice Da Vinci”?


La trama di questo romanzo è incentrata sulla medioevale leggenda del Santo Graal e della sua ricerca, solo che, secondo D. Brown, non si tratta di cercare il tradizionale e leggendario “calice” in cui fu raccolto il sangue di Cristo, bensì una persona, o meglio le sue spoglie mortali, che sarebbero nientemeno che quelle di Maria di Magdala, cioè la Maddalena. Era lei il vero recipiente che conteneva il sangue di Cristo accogliendo dentro di sé i figli che ha avuto con lui. Il grande segreto de “Il Codice da Vinci” consiste, quindi, in ciò che D. Brown pensa sia l’esatta interpretazione del termine Santo Graal che deriverebbe dal francese antico sang réal, cioè “sangue reale”. Questo sangue non sarebbe altro che questa discendenza che costituirebbe la vera Chiesa voluta da Gesù, con a capo non il furfante Pietro, amico di quel malfattore di Paolo, ma la Maddalena. Questa chiesa avrebbe dovuto proclamare la priorità del principio femminile. A pag. 280 de “Il Codice da Vinci” D. Brown afferma che il Graal simboleggia la dea perduta e che la leggenda dei cavalieri alla sua ricerca nasconde i tentativi di recupero del femminino sacro perduto. Il tutto per proteggersi dalla Chiesa Cattolica che aveva soggiogato le donne, condannato il culto della “dea” e bruciato tutti gli oppositori. 

Quindi, per D. Brown, Gesù fu un normale uomo ebreo appartenente ad una numerosa famiglia, si sposò con la Maddalena, ebbe più figli senza aver mai avuto la pretesa di essere Dio. Fu il perfido Paolo, facendosi forte della complicità del sempliciotto Pietro, a reinventare un nuovo cristianesimo e una nuova Chiesa sopprimendo l’elemento femminile e proclamando che Gesù Cristo era Dio. Successivamente questa Chiesa, malvagia e truffaldina, fece causa comune con l’imperatore Costantino inducendolo a far piazza pulita di tutti gli oppositori facendoli proclamare eretici e a far definire dal Concilio di Nicea come unica “Verità” quella sua, patriarcale e anti-femminista. Il disegno criminoso, ovviamente, implica la soppressione della verità su Gesù, sul suo matrimonio e l’annientamento fisico della sua discendenza. Per poter realizzare questo progetto Costantino impose la scelta di quattro vangeli “innocui” fra i numerosi che esistevano proclamando eretici gli altri vangeli “gnostici” che, invece, sarebbero testimoni del matrimonio fra Gesù e la Maddalena. 

Viceversa l’altra fase del “progetto”, cioè l’annientamento fisico della discendenza di Gesù, purtroppo per Costantino e la Chiesa non riesce e così, dopo inenarrabili peripezie, i poveri perseguitati riescono addirittura ad impadronirsi del regno di Francia sotto il nome di Merovingi. La Chiesa, però, non demorde ed incarica i Carolingi di assassinare i vertici della dinastia Merovingia per poi prenderne il posto sul trono di Francia, ma quando sembra tutto perduto, ecco apparire un’organizzazione misteriosa, il Priorato di Sion, che riesce a proteggere la discendenza di Gesù e il suo segreto. Oltre al Priorato anche altri sono a conoscenza del segreto, i cavalieri Templari e la setta eretica dei Catari o Albigesi. La Chiesa Cattolica riesce a saperlo e non ha pietà, in pochi anni riesce ad annientare, in un orrenda carneficina, sia i cavalieri che i poveri Catari. Successivamente i sanguinari successori di Pietro liquidano il primato del principio femminile con la lotta alle streghe bruciando più di cinque milioni di donne. Nonostante tutto il Priorato di Sion sopravvive, anzi annovera tra i suoi Gran Maestri alcuni personaggi famosi della storia come Leonardo da Vinci, Isaac Newton e Victor Hugo. Ognuno di essi, per non essere scannato dalla Chiesa, ha lasciato solo degli indizi del segreto nelle loro opere. E così al giorno d’oggi il sang réal sopravvive ancora in famiglie che portano i cognomi Plantard e Saint Clair. La conclusione del romanzo è, se possibile, ancora più assurda di tutto il resto, viene, infatti, svelato l’ultimo mistero: la tomba della Maddalena è nascosta sotto la piramide di vetro del Louvre, una sorta di mausoleo voluto dal massone ed occultista François Mitterand, presidente francese morto nel 1996. 

D. Brown basa le sue fantasticherie sulle affermazioni di alcuni libri pseudo-scientifici che hanno già avuto la censura della comunità scientifica mondiale. Tra questi spiccano: “The Holy Blood and the Holy Graal” di M. Baigent, R. Leigth ed H. Lincoln; “I Vangeli gnostici” di E. Pagels, un classico della cultura femminista accademica; “La rivelazione dei Templari: i Guardiani della vera identità di Cristo” di L. Picknett e C. Prince, libercolo esoterico popolare. Inoltre, a corollario, cito altri due testi che hanno assunto una certa notorietà: il visionario “La linea di sangue del Santo Graal” di L. Gardner e l’improbabile “Jesus the man” di B. Thiering.

Come vedremo le asserzioni di tali testi sono del tutto fantasiose, infatti si basano solo su ipotesi non suffragate da prove certe. In particolare gli scritti di L. Gardner, B. Thiering, di M. Baigent, R. Leigh e H. Lincoln, che cercano di darsi un tono scientifico, risultano colpevolmente ingannevoli in quanto si prodigano a fornire prove storiche per i particolari insignificanti, ma le omettono completamente, perché non esistono, per le interpretazioni importanti.

A questo punto non ci resta che iniziare il nostro viaggio storico per scoprire che attendibilità hanno tutte queste incredibili affermazioni sulla vita di Gesù e della Chiesa.

lunedì 7 settembre 2015

Fecondazione eterologa, i nodi cominciano a venire al pettine.



E' già passato più di un anno da quando la Consulta ha dichiarato incostituzionale (sic) il divieto al ricorso della fecondazione eterologa. Ricordo bene quanto il mondo laicista abbia esultato per questa "svolta" di civiltà e libertà, finalmente le coppie sterili non dovranno più andare all'estero, sarà ovviamente scongiurato ogni mercato di materiale genetico, e così via. 

Passata l'euforia iniziale i nodi cominciano a venire al pettine, infatti ad oggi le coppie che hanno usufruito di tale metodo sono pochissime, decretando, di fatto, il fallimento di questa tipologia di fecondazione artificiale. Certamente influiscono le eccessive spese a carico del SSN, un caos normativo, ma la vera ragione di questo "flop" è la mancanza di donatori

In Italia per donare gameti e ovociti occorre, giustamente, seguire le stesse procedure per la donazione del sangue e del midollo. Ma ciò comporta il doversi sottoporre ad analisi e controlli, che nel caso della donna sono pure molto invasivi. Può essere questa una causa della scarsezza di donatori? La donazione nasce da un puro sentimento di altruismo e solidarietà, ma nel caso del sangue e del midollo si dona per salvare una vita da morte certa, nel caso della fecondazione eterologa invece, non c'è da salvare alcuna vita. Tutto ciò non può non avere il suo peso e, nonostante la propaganda laicista, bisogna tener conto del fatto che la donazione di gameti non ha lo stesso valore morale degli altri tipi di donazione. Nel caso della donna, poi, tale donazione deve pure passare attraverso lunghe e faticose terapie ormonali, attraverso una stimolazione innaturale della maturazione degli ovociti, andando incontro a gravi rischi per la salute. .

Come paventato a suo tempo dalle posizioni cattoliche il ricorso all'eterologa comporta sempre il grave rischio della mercificazione del materiale umano. Infatti questa mancanza di donatori costringerà le varie amministrazioni, per far fronte alle richieste di fecondazioni eterologhe, a ricorrere all'estero per approvvigionarsi dei gameti. Tutto ciò avverrà a pagamento? Lo possiamo escludere? 

L'avv. Filomena Gallo, segretario dell'Associazione "Luca Coscioni", è arrivata perfino ad ipotizzare la possibilità di riconoscere un rimborso per le donatrici di ovociti. Ma tale riconoscimento non è forse un mercato nascosto? Come possiamo escludere che, a lungo andare, sotto il nome di “rimborso spese” si celi un vero e proprio pagamento degli ovuli?

Io penso che questa carenza di donatori sia dovuta anche, e specialmente, alle implicazioni morali che tale donazione comporta: troppi rischi per la salute, non si può giocare con la vita per avere un figlio a tutti costi. Il rischio finisce per essere quello di dover riconoscere qualcosa ai donatori. E questo è inaccettabile.