giovedì 28 aprile 2016

La "dottrina della scoperta"

Grazie alla segnalazione di Trinity, una frequentatrice del blog “Croce-Via” in cui intervengo anch’io, sono venuto a conoscenza di una curiosa iniziativa da parte di un certo “Romero Institute”, una non meglio identificata associazione autodefinitasi “Cristicola” (?). L’iniziativa sarebbe quella di proporre una petizione on line per convincere il Papa, ossia il vescovo di Roma, Francesco, a misconoscere una fantomatica “dottrina cattolica della scoperta” che sarebbe stata legittimata da alcune bolle papali del XV secolo. Reperibile su You tube c’è addirittura un video che sciorina tutta una serie di accuse contro la Chiesa cattolica colpevole di aver causato lo sterminio dei nativi americani del Nord America ed ad aver dato ai vari governi Statunitensi, con questa “dottrina della scoperta”, la legittimazione morale delle loro azioni di conquista e saccheggio. Onestamente di questa “dottrina della scoperta” non ne avevo mai sentito parlare ed indagando più a fondo ho scoperto che all’indomani dell’elezione del nuovo papa, Francesco, la Nazione Onondaga, una delle cinque nazioni indiane del ceppo irochese, originaria dello Stato di New York, gli avrebbe addirittura rivolto un appello affinché fosse revocata questa famigerata “dottrina della scoperta”. Ma cos’è questa dottrina?

Secondo il parere di questo “Romero Institute” e dell’“Indian Country Today Media Network.com” questa dottrina che affermerebbe il diritto dei conquistatori cristiani di sottomettere, schiavizzare e depredare le terre e le popolazioni pagane, sarebbe stata concepita da papa Nicola V nel XV secolo ed esposta in due bolle pontificie, la "Dum Diversas" del 1452 e la "Romanus Pontifex" del 1454. Successivamente anche papa Callisto III avrebbe ribadito gli stessi principi nella bolla “"Inter Caetera" nel 1456. Ma c’è di più, questa “dottrina della scoperta” sarebbe stata anche la base giuridica per far affermare alla Corte Suprema degli Stati Uniti, nel 1823, la superiorità dei diritti dei cristiani, degli ebrei e dei musulmani rispetto a quelli dei pagani, cioè gli indigeni americani. Tutto ciò avrebbe legalmente giustificato il colonialismo e da cui ancora derivano le attuali legislazioni che riguardano le popolazioni indigene.

Seppure appare una teoria incredibile, per molta parte della storiografia laicista lo sterminio degli indiani d’America, le fiere nazioni indigene native delle pianure del Nord America, sarebbe stato causato da papa Niccolò V e dalla sua “dottrina della scoperta”. Prima gli inglesi, e successivamente gli statunitensi, hanno potuto conquistare l’America del Nord e ridurre in schiavitù i suoi originari abitanti perché autorizzati dal papa. La crudeltà del famoso generale Custer, le stragi di Sand Creek o di Wounded knee, tutto da addebitare alla responsabilità del Vaticano.

Non c’è limite alla follia laicista, se è rivolta verso la Chiesa Cattolica, ogni accusa, anche la più assurda ed improbabile viene tranquillamente propugnata e diffusa come se niente fosse.
Le bolle del XV secolo dei papa Niccolò V e Callisto III non presuppongono, né teorizzano alcuna “dottrina della scoperta”, ma devono essere analizzate contestualizzandole nel preciso momento storico in cui furono emanate. Innanzitutto in quegli anni, dal 1452 al 1456, nessuno ancora sapeva dell’esistenza del continente americano e in quelle bolle non si parla minimamente di nuove scoperte, ma vi viene conferita al re del Portogallo, Alfonso V, l'autorizzazione a conquistare e soggiogare le coste atlantiche dell'Africa Nord Occidentale, a quel tempo già ampiamente conosciute. Quindi non hanno nessun legame con l'espansione dei paesi europei in Nord America. 

Per capire i motivi di questi pronunciamenti pontifici è necessario, come al solito, contestualizzare i documenti e non sparare sentenze come fanno i laicisti. Il XV secolo era profondamente dominato dalla paura dell'irrefrenabile espansione della marea ottomana che nel 1453 espugnò persino Costantinopoli, in un'orrenda strage, ponendo fine al millenario impero bizantino ed abbattendo il culto cristiano nella famosa basilica di Santa Sofia che fu trasformata in una moschea. Tutto ciò provocò una fortissima impressione e sgomento in tutta la cristianità al punto che quando le armate ottomane si misero in marcia verso nord nel cuore dell'Europa, dove arrivarono fino a Vienna, e ad occidente lungo la costa africana del mediterraneo, arrivando fino ai confini del Marocco, sorse un allarme generale tra tutte le forze cristiane con il Papa come aggregante elemento centrale. Le bolle di Niccolò V e Callisto III devono essere inquadrate nell'ottica della difesa della cristianità, e questo anche nei territori africani. Certamente questi papi esagerarono nell'incoraggiare e ritenere necessaria la riduzione in schiavitù di chi non fosse cristiano, ma si trattò di un'enormità che restò un caso isolato. E’ assurdo ipotizzare l’ufficializzazione di una “dottrina” allo sfruttamento ed alla schiavitù, già precedentemente Papa Eugenio IV, con una bolla del 1434, la "Sicut Dudum", aveva preso le difese dei nativi delle isole Canarie, da poco scoperte dagli iberici, imponendo loro la liberazione degli schiavi pena la scomunica entro 15 giorni dalla conoscenza della lettera. Successivamente la Chiesa ha ribadito la condanna della schiavitù e propugnato l'abolizionismo in numerosi documenti papali nel 1434, 1462, 1537, 1591, 1639, 1741, 1839, 1888, 1890 e 1912. In particolare di quegli anni la lettera di Pio II, Rubicensem, del 1492, in cui il Papa ricorda al vescovo della Guinea portoghese che la schiavitù dei neri è un “magnum scelus”, cioè un grande crimine, oppure ancora la bolla “Sublimis deus” di papa Paolo III, del 1537, in cui viene affermato che non è lecito a nessuno privare della libertà e delle proprietà gli indiani e tutti gli altri popoli, anche se non appartenenti alla nostra religione. Le parole del papa sono chiare ed inequivocabili, per chi riduce in schiavitù e depreda c’è la scomunica: 

Prestando attenzione a che gli stessi Indiani, anche se sono al di fuori del grembo della Chiesa, non siano stati privati o non stiano per essere privati della loro libertà o del dominio sulle loro cose, poiché sono uomini e per questo capaci di fede e di salvezza, o a che non stiano per essere ridotti in schiavitù, [...] desiderando reprimere tanto infami misfatti di empi di tal fatta, [...] diamo mandato [...] affinché [...] sotto pena di scomunica come da sentenza pronunciata [...], con più grande severità tu impedisca che in nessun modo presumano di ridurre in qualsiasi modo in schiavitù gli Indiani di cui sopra, o di spogliarli dei loro beni

Ma la pseudostoriografia anticattolica non si arrende e molto spesso viene citata una bolla di papa Alessandro VI Borgia, la “Inter Caetere” del 1493, che avrebbe autorizzato la conquista e lo sfruttamento degli indigeni anche nel nuovo mondo. Niente di più falso, quella bolla non fece altro che organizzare l’espansione della Spagna e del Portogallo, ma non si trattò di un riconoscimento di autorità, venne concessa a quei regni la responsabilità di portare il messaggio di Cristo in territori che il papa di allora, secondo la mentalità dell’epoca, riteneva comunque essere dei feudi della Chiesa. Disposizioni che, tra l’altro, vennero superate dal trattato di Tordesillas del 1494 tra Spagna e Portogallo con il quale, senza alcuna autorizzazione della Chiesa, le due potenze si spartirono le rispettive sfere d’influenza. La prova che la Chiesa premesse affinché fosse primariamente portato rispetto per gli indigeni e per le loro proprietà è riscontrabile dal comportamento dei regnanti spagnoli. Ad esempio nel 1501 la regina Isabella detta una Istruzione al governatore delle Indie, Nicolas de Ovando, affinché sia rispettati i diritti degli indigeni dai soprusi spagnoli e che l’evangelizzazione di quei popoli sia condotta senza alcuna costrizione (J. Dumont “La regina diffamata” Sei, Torino 1992, p. 125), oppure l’incriminazione per tortura e strage che dovette affrontare il governatore di Cartagena in Colombia, Pedro de Heredia, da parte dell’imperatore di Spagna Carlo V. I vescovi dell’America spagnola si appellavano continuamente alle corti spagnoli per denunciare i casi di schiavitù fino ad ottenere, nel 1542, nuove leggi che la proibivano, tra cui il Còdigo Negro Espagnol che mitigava le condizioni degli schiavi negri africani importati in America. Tutto ciò provocava continui conflitti tra le autorità religiose e civili (R. Stark “La vittoria della ragione. Come il cristianesimo ha prodotto libertà, progresso e ricchezza” Ed. Lindau Torino 2006, pgg. 299-230).

Niente di tutto ciò accadde nel Nord America dove la Chiesa Cattolica non esercitò alcun tipo d’influenza. Nel 1497 il re d’Inghilterra, Enrico VII, autonomamente e senza alcuna autorizzazione del papa, incaricò il navigatore italiano Giovanni Caboto di condurre una spedizione esplorativa del territorio nord americano che raggiunse il Canada. Il successore Enrico VIII, come è noto, rompe ogni legame con la Chiesa di Roma e fonda una sua personale Chiesa. Sua figlia Elisabetta I, quale capo della Chiesa del padre, cioè la Chiesa d’Inghilterra, si assunse ogni prerogativa in merito al possesso delle terre d’oltreoceano e diede inizio alla colonizzazione inglese del continente nord americano. Dal 1607 fino al 1732 il dominio inglese fu rappresentato dalle Tredici Colonie, quando queste si ribellarono all’Inghilterra e fondarono gli Stati Uniti d’America. I nuovi padroni, infine, condussero la sistematica penetrazione nel continente nord americano colonizzandolo tutto fino alle coste del Pacifico. Mentre laddove Spagnoli, Francesi e Portoghesi fondarono le loro colonie l’elemento indigeno, grazie all’influenza cattolica, si è conservato, nelle terre del Nord America le nazioni indiane sono state letteralmente spazzate via e vi ha imperversato la schiavitù. In quelle terre invece della fantomatica “dottrina della scoperta” vigeva il cosiddetto “Codice delle Barbados” la legge britannica del 1661 che legittimava la schiavitù in tutte le sue colonie e che equiparava giuridicamente lo schiavo al capo di bestiame. 

In conclusione penso di poter dire che questa iniziativa della petizione è una grossa "boutade", una sciocchezza inventata per gettare fango sulla Chiesa, una violenza alla storia e al buon senso, una patetica dimostrazione di becero anticattolicesimo. Siamo di fronte all’ennesima operazione di mistificazione della storia ad opera della storiografia laicista-illuminista e protestante che secondo il famoso storico francese Pierre Chaunu ha prodotto la leggenda dello sterminio degli indios da parte della Spagna cattolica per coprire l’orrenda vergogna del massacro americano dell’Ovest del XIX, l’inconfessabile crimine dell’America protestante. 


Bibliografia

J. Dumont “La regina diffamata” Sei, Torino 1992; 
Wood, Betty “The Origins of American Slavery: Freedom and Bondage in the English Colonies” New York: Hill and Wang, 1997;
R. Ivaldi “Storia del colonialismo”, Newton, Roma 1997;
R. Stark “La vittoria della ragione. Come il cristianesimo ha prodotto libertà, progresso e ricchezza” Ed. Lindau Torino 2006.

mercoledì 20 aprile 2016

Paolo e il cristianesimo esoterico

Come abbiamo visto a proposito degli Ebioniti, la setta di pseudo cristiani giudaizzanti vissuta tra la fine del I ed il II secolo, la storiografia laicista immagina sempre complotti ed intrighi alla base della nascita della Chiesa cristiana e della dottrina cattolica. Tra questi c’è anche quello che sarebbe stato ordito contro il cristianesimo gnostico ritenuto espressione della vera ed originale fede espressa dai primi cristiani. La lotta accanita dei padri della chiesa condotta nel corso del II e III secolo contro l’eresia gnostica non sarebbe altro che l’opera di soppressione dell’originale fede cristiana e l’imposizione di un’istituzione gerarchica che avrebbe sviluppato la classe sociale dominante in Europa, cioè la burocrazia clericale, in poche parole la Chiesa Cattolica.

Secondo questa stravagante teoria il substrato prettamente gnostico della fede cristiana delle origini si ricaverebbe nientemeno che dall’insegnamento gnostico-esoterico riscontrabile nelle lettere paoline, quindi riconducibile ad un’epoca vicinissima all’origine stessa del Cristianesimo. Alcuni importanti studi e ricerche, come quelli riportati in “The Gnostic Paul: Gnostic Exegesis of the Pauline Letters”, Fortress Press, 1975, di Elaine Pagels, oppure in “L’eresia. Dagli gnostici a Lefebvre, il lato oscuro del cristianesimo“ Mondadori Editore, Milano, 1996, di Marcello Craveri, avrebbero messo in luce il carattere tipicamente gnostico di alcune importanti lettere di Paolo di Tarso e dimostrerebbero come il Cristianesimo delle origini sia stato di stampo gnostico. Ad esempio nella prima lettera ai Colossesi (1,19) si parla di Dio come del Pleroma, cioè viene usato un termine tecnico degli gnostici. Paolo scrive che in Gesù Cristo dimora la “pienezza” cioè il “Pleroma”. Infatti, secondo la gnosi valentiniana, da Valentino, uno gnostico del II secolo, Gesù è chiamato il “fiore del Pleroma” in quanto ultimo Eone, cioè un essere celestiale, ad essere emanato dopo la caduta. Esso sarebbe stato emanato dalla totalità degli altri Eoni, quindi da tutto il Pleroma nella sua interezza. Ecco perché in lui risiederebbe il Pleroma. 

Come è noto gli gnostici ripudiano il modo materiale perché creazione malvagia del Demiurgo, cioè di un dio deteriore. Secondo la Pagels e Craveri questa impostazione deriverebbe dalla teologia di Paolo quando l’apostolo parla del Corpo Glorioso di Cristo dopo la risurrezione, facendo intendere che non sarà un corpo fisico, perché “la carne e il sangue non possono ereditare il Regno di Dio” (2 Cor 3, 7; 1 Cor 15, 50). L’apostolo delle genti indicando la distinzione fra un il “corpo animale” e il “Corpo Spirituale” (1 Cor 15, 44), avrebbe anticipato le tipiche cosmologie gnostiche. Infatti per indicare le potenze che ostacolano il cammino del cristiano verso la verità l'apostolo delle genti usava una terminologia tipica degli gnostici. Invece di utilizzare il termine ebraico “Satana” preferiva parlare di “arconti” proprio come uno gnostico: “Nessuno dei dominatori (Arconti) di questo mondo ha potuto conoscere la nostra Sapienza: se l’avessero conosciuta non avrebbero crocifisso il Signore della gloria” (1 Cor 2, 8). 

Distrutto dal “complotto” dei padri apologisti questo “antico” ed “autentico” cristianesimo gnostico avrebbe trovato, secondo questi autori, un’affermazione nella teologia di alcune sette pseudo cristiane come quella degli Elcasaiti e, specialmente, nel manicheismo. Alcuni testi gnostici come il Codex Manichaicus Coloniensis o la cosiddetta Apocalisse gnostica di Paolo, ritrovata a Nag Hammadi, in Egitto, testimonierebbero una antica tradizione che dipenderebbe dall’insegnamento esoterico di Paolo e, quindi, dalla primitiva comunità cristiana.

Indubbiamente sarebbe assurdo non ammettere l’influsso del pensiero paolino sul futuro gnosticismo, ma da questo affermare che il vero cristianesimo sia stato quello gnostico e che Paolo di Tarso fu lui stesso un proto-gnostico sarebbe un’assurdità ancora maggiore. Lo gnosticismo eterodosso del II secolo nasce da un sincretismo tra Cristianesimo, Giudaismo, filosofia greca, culti misterici e credenze iraniche. Le prime elaborazioni sistematiche compaiono solo a partire dagli inizi del II secolo, ma i prodromi sono da ricercarsi nella visione del mondo e dell'uomo nata in ambiente ellenistico e che trova nel Cristianesimo nascente il referente religioso. Tutto ciò influirà sulle terminologie usate dall'apostolo Paolo e dall'evangelista Giovanni da cui lo gnosticismo cristiano trarrà i suoi rilevanti punti di riferimento teorici fino ad arrivare a sviluppare una sua teologia che finì per discostarsi ampiamente dal dato scritturale. L’eresia gnostica sosteneva che il cosmo fosse pervaso dal dualismo materia-spirito, due elementi che non traevano origine da un Dio unico, ma da due dei. Un dio del male e della materia e un altro dio, del bene e dello spirito. La conoscenza di questa, presunta, duplice realtà portava gli gnostici a credere che la materia fosse malvagia e lo spirito buono, rifiutando così l’incarnazione di Cristo. 

Questa impostazione è totalmente assente nella teologia paolina. A Colossi, città della Frigia, Paolo deve confrontarsi con alcune “filosofie” che pretendendo di basarsi su una conoscenza misteriosa, bagaglio di pochi iniziati, ed insegnavano un’insufficienza di Gesù Cristo per ottenere la salvezza. Costoro speculavano su cose che nessuno sapeva, fornendo immagini fantasiose del mondo angelico e anche di quello umano e ponevano le gerarchie celesti in posizione di preminenza rispetto al ruolo assoluto di Cristo. Ciò accadeva perché gli angeli erano ritenuti mediatori tra Dio e l’uomo. A tal proposito tornano molto chiare le parole di Paolo: “Nessuno vi derubi a suo piacere del vostro premio, con un pretesto di umiltà e di culto degli angeli, affidandosi alle proprie visioni, gonfio di vanità nella sua mente carnale” (Col 2, 18). All’inizio della lettera ai Colossesi, Paolo pone un inno dove annuncia che Cristo è l’immagine di Dio invisibile volendo contrapporre a quei falsi dottori che si erano subdolamente infiltrati nella chiesa di Colossi e che pretendevano di avvicinar Dio all'uomo per via di “emanazioni” o di elevarlo a Dio per mezzo della speculazione filosofica, la persona stessa del Cristo, carnale e tangibile. Paolo smentisce qualsiasi valenza salvifica di un sapere o conoscenza particolare, che l’apostolo chiama “filosofia” (Col 2, 8), fondato su una “tradizione degli uomini” e su un “intellettualismo etico”. Se il Vangelo, per effetto dell’influenza dei tanti culti misterici ellenisti, del platonismo, degli orientamenti razionalistici, si riducesse ad una dottrina esoterica valida solo per alcuni, solo per i "forti" perché "più illuminati", tutti gli altri, i "deboli" e i "miserabili", prigionieri della loro debolezza carnale, rimarrebbero esclusi e ciò è assolutamente incompatibile con l’universalità della salvezza proclamata da Paolo (1 Tm 2, 4). 

Alla luce di questa impostazione quando Paolo in Col 2, 9 afferma che in Cristo “abita corporalmente la pienezza della divinità”, cioè il “Pleroma”, non usa un concetto che sarà proprio dello gnosticismo, ma intende affermare che solo nel Cristo incarnato (“corporalmente”) risiede la pienezza di Dio, la quale, quindi, non è propria degli angeli, dei Troni o Dominazioni (Arconti) e tanto meno degli eoni del futuro gnosticismo. Ma c’è di più: sorprendentemente questa “pienezza” può essere, in un certo modo, partecipata dalle creature, cioè dagli uomini carnali ("in lui siete stati riempiti", Col 2, 10).

Prima della sua diffusione verso i gentili il cristianesimo era una faccenda prettamente ebraica e il confronto si basava sul dato storico della vita, morte e resurrezione di Gesù. Cosicché il nucleo essenziale del kerygma, cioè l’annuncio della salvezza primitivo degli Apostoli e dei loro collaboratori, ma anche della predicazione di Paolo è la risurrezione corporea di Gesù Cristo. L’ambiente ellenistico è restio ad accogliere questa verità di fede, la resurrezione fisica di un uomo dalla morte non viene creduta. Si sviluppa, quindi, un esagerato ascetismo in cui pian piano la materia diviene il male assoluto a cominciare dal corpo fisico. Ma Paolo polemizza contro questa impostazione salvaguardando proprio la dignità del corpo: è il corpo crocifisso di Cristo che salva gli uomini, in quel corpo abita tutta la divinità nella totalità delle sue perfezioni (Col. 2,9 ), è il tempio dello Spirito Santo (1 Cor. 6, 12), è un corpo destinato ad essere rivivificato all'atto della resurrezione dei morti. Paolo oppone la dignità del corpo a qualsiasi filosofia religiosa di orientamento dualistico, non solo in relazione all'umanità di Cristo, ma fino a fare dello stesso corpo l'immagine della Chiesa, tema esposto nelle due cosiddette “lettere della prigionia” (Col.1, 18-24; 2,19; Ef.1, 22-23; 4,4; 13, 15-16; 5,23-30).

Anche, e forse maggiormente, Paolo deve scontrarsi con la “filosofia” proto-gnostica nella città di Corinto, posta al centro della grecità, fondamentale punto di passaggio di uomini e culture. Ai Corinti è congeniale solo la resurrezione mistica, frutto all'attività dello Spirito, che produce in loro una nuova consapevolezza di vita e di fede. Ma alcuni esagerano fino a negare la resurrezione corporea dei morti. Altri, ancora, la intendono solo in senso allegorico e figurato. Paolo interviene ribadendo il fondamento biblico e storico della resurrezione di Cristo ricordando le apparizioni del risorto (1 Cor 15, 5-8). Per Paolo l’importante è stare molto attenti a non “svuotare” la Croce di Cristo (1 Cor 1, 17), cioè dimenticare la reale importanza delle sofferenze patite sulla croce e la morte corporea del Redentore. Gesù è realmente uomo e Dio allo stesso tempo. Non è uno spirito puro, una specie di angelo, che si è unito ad un corpo, ma un vero uomo che, attraverso la carne, ha realizzato la Salvezza, riscattando il genere umano dal peccato e dal potere di maledizione della Legge.

Quando in 1 Cor 15, 44 Paolo distingue il corpo “animale” da quello “spirituale” non intende affatto rifarsi ad una terminologia o filosofia gnostica, ma propone una visione che deriva dalla tradizione biblica. Il corpo “animale” è reso con la parola “psiché” (in ebraico “nefesh”) che indica il principio vitale che anima, al pari degli animali, il corpo umano. Rappresenta, quindi, la sua vita (Rm 16, 4; Fil 2, 30; 1 Tes 2, 8), la sua anima vivente (2 Cor 1, 23). Questo corpo, per Paolo, non è diviso tra sòma, psiché e pnéuma come per i platonici, ma è un’unica identità che deve trasformarsi affinché ritrovi la sua vita divina persa con il peccato di Adamo e ritrovata con il dono dello Spirito (Rm 5, 5). Mentre per la filosofia greca la sopravvivenza immortale è solo per l’anima superiore, cioè l’intelletto, il "nous", che si libera dal corpo alla morte di esso, Paolo concepisce l’immortalità come una restaurazione integrale dell’uomo, cioè la risurrezione del corpo mediante lo Spirito. Questo principio divino, che l’uomo aveva perso in seguito al peccato (Gn 6, 3), gli viene restituito dall’unione con Cristo resuscitato (Rm 1, 4; 8, 11). 

E’ il “nous” greco, l’intelligenza divina che organizza il mondo, la sapienza eletta, la conoscenza che, secondo i dualisti sarebbe stata trasmessa da Gesù ai suoi Apostoli e da questi ultimi ai loro iniziati. In Paolo niente di tutto questo: il termine “gnosis”, cioè “conoscenza”, che usa l’apostolo delle genti nelle sue lettere, ha un significato tipicamente semitico ed indica una “unione”, un "incontro", che coinvolge tutto l'individuo predisponendolo all'azione nella storia e nella Chiesa. Per Paolo la salvezza non viene dall’intelligenza, il “nous”, o da una illuminazione, ma unicamente da Cristo, dal suo corpo morto e risorto. Il corpo, quindi, non è disprezzato, ma fonte della Salvezza, anzi è la Chiesa stessa ad essere chiamata a costituire il Corpo di Cristo: “Nessuno ha mai odiato la propria carne; al contrario la nutre e se ne prende cura come anche Cristo (fa per) la Chiesa, poiché siamo membra del suo Corpo" (Ef. 5, 29-30).

Contrariamente alle fandonie di certa storiografia sensazionalistica, lo gnosticismo docetista non fu affatto la prima forma di cristianesimo, ma un pericolo mortale capace di stravolgere la fede dei semplici e confondere le menti dei dotti con racconti fantastici e mitici su Gesù Cristo senza avere alcun riscontro con gli scritti neotestamentari ispirati dalla testimonianza apostolica. E’ proprio grazie all’operato di Paolo e alla fede incrollabile di figure come Ireneo di Lione, Clemente Alessandrino, Ippolito di Roma e di tanti altri ancora che quel “cancro” fu estirpato e possediamo ancora l’originale testimonianza apostolica. 



Bibliografia

E. Pagels “The Gnostic Paul: Gnostic Exegesis of the Pauline Letters”, Fortress Press, 1975; 
M. Craveri “L’eresia. Dagli gnostici a Lefebvre, il lato oscuro del cristianesimo“ Mondadori Editore, Milano, 1996;
L. Moraldi “Le Apocalissi Gnostiche” Adelphi, Milano 1987;
G. Ravasi, "Lettere agli Efesini e ai Colossesi", EDB, Bologna 1994
S. Cipriani, "Le Lettere di S. Paolo", Cittadella Editrice, 2008.

martedì 12 aprile 2016

Il diritto ad uccidere dei laicisti

Si fa sempre più pressante l'ingerenza della dittatura laicista europea contro i paesi membri che non si allineano alle sue logiche eugenetiche. Il Comitato europeo dei diritti sociali, un organismo del Consiglio d'Europa, ha condannato l'Italia perché sarebbe stato violato il diritto alla salute delle donne che vogliono abortire. Secondo questa sentenza in Italia le donne incontrerebbero notevoli difficoltà nell'accesso ai servizi d'interruzione di gravidanza e ciò sarebbe dovuto, in sostanza, per l'alto numero di medici obiettori di coscienza. Questo pronunciamento della Corte di Strasburgo è stato provocato da un ricorso presentato nel 2013 dal sindacato Cgil secondo il quale in Italia non sarebbe garantito il diritto all'aborto così come regolato dalla legge 194/78 sull'interruzione di gravidanza. Secondo il ministro della Salute Beatrice Lorenzin, invece, ci sono stati solo alcuni problemi di criticità dovuti alla disorganizzazione di alcune aziende pubbliche, ma in sostanza il diritto alla salute delle donne non sarebbe stato violato.    

E' ben strano che la Corte Europea si permetta di bacchettare l'Italia perché, in pratica, non concederebbe la libertà assoluta di accedere all'aborto così come avviene, ad esempio, in Francia. Ogni paese, infatti, in materia di rispetto dei diritti umani, come a quello della salute, ha il diritto/dovere di disciplinarlo. E' bene ricordare, infatti, che non esiste un "diritto all'aborto", ma esclusivamente un diritto alla salute, quindi alla vita. Anche la legge italiana, infatti, non prevede alcun diritto all'aborto, ma regola la drammatica contrapposizione tra la prosecuzione della gravidanza e la tutela della madre. La donna, quindi, dev'essere guidata, sostenuta ed aiutata verso una scelta di vita, non di morte. Tra le cosiddette "difficoltà" non può, come spesso avviene, essere compresa la piena e coscienziosa applicazione della legge 194 che impone il riconoscimento di motivi gravi e comprovati per procedere all'interruzione di gravidanza.

Totalmente assurda è, poi, la polemica sull'alto numero dei medici obiettori. Sotto il falso problema della scarsa organizzazione le forze laiciste mirano palesemente a comprimere il diritto all'obiezione di coscienza fino a farlo decadere. Il laicismo mira a trasformare ogni sua pretesa in un diritto fino ad arrivare a considerare tale anche quello di poter sopprimere una vita. Tutto ciò è assolutamente inconcepibile per chi ha ancora il senno di riconoscere il valore assoluto della vita umana e tanto più per i medici la cui missione è quella di salvare vite umane, non di sopprimerle. Basterebbe solo che si ricordassero del giuramento d'Ippocrate che hanno sottoscritto una volta laureati.   

Ogni bambino, sano o malato che sia, ha una sua dignità, è una vita umana fin dal concepimento ed è dovere di tutti curarlo e proteggerlo. 


venerdì 8 aprile 2016

Parte VII - I fratelli di Gesù

Diffusissima è la convinzione che Gesù abbia avuto dei fratelli o dei fratellastri, cioè i figli di un precedente matrimonio di Giuseppe. Avendo avuto, in passato, diversi confronti d’opinione con esponenti della setta dei Testimoni di Geova e della Chiesa Cristiana Evangelista, conosco bene quanto sia radicata tale convinzione in ambienti religiosi non cattolici. Le storie di L. Gardner non sono, quindi, una novità. A pag. 40 del suo “La linea di sangue del santo Graal”, l’autore afferma che verginità fisica attribuita a Maria dalla Chiesa Cattolica non è credibile in quanto ella ebbe altri figli. Ciò sarebbe confermato proprio dai vangeli, ad esempio nel vangelo di Matteo si legge: “Non è costui il figliolo del falegname? Sua madre non si chiama ella Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, e Iose, e Simone, e Giuda?” (Mt 13, 55). Secondo L. Gardner questo passo del vangelo di Matteo dimostra senza ombra di dubbio che Gesù aveva una normale famiglia con genitori e fratelli. Inoltre, sempre nei vangeli, Gesù viene citato come il “primogenito” di Maria (Lc 2, 7 e Mt 1, 25). Addirittura in Mt 13, 56 e Mc 6, 3 si fa riferimento anche a delle sorelle di Gesù. Questa convinzione che Gesù avesse dei fratelli si è talmente diffusa che è divenuta un vero e proprio cavallo di battaglia di anticattolici da strapazzo, alla Odifreddi per intenderci, ma anche di storici di professione come Mauro Pesce che manifesta queste sue certezze nel divulgativo e fortunato libro “Inchiesta su Gesù” scritto assieme al giornalista ateo Corrado Augias. In realtà al contrario di tali sicurezze la questione è molto dibattuta. 

Esistono diverse interpretazioni di tale questione, ma alla fine possono essere tutte ricondotte a tre ipotesi. La prima, prevalente presso le Chiese cristiane orientali, considera questi “fratelli” di Gesù come dei fratellastri, cioè dei figli che Giuseppe avrebbe avuto da un precedente matrimonio. Questa convinzione deriva, molto probabilmente, da un versetto del Protovangelo di Giacomo, un testo apocrifo del II secolo d.C., dove vengono messe in bocca a Giuseppe, al momento del matrimonio con Maria, le seguenti parole: "Ho figli e sono vecchio, mentre lei è una ragazza!" (Protovangelo di Giacomo 9,2). Per le Chiese Protestanti, invece, i vangeli farebbero riferimento a figli più giovani avuti da Giuseppe e Maria. In realtà, e siamo alla terza ipotesi, quella cattolica, la lettura più attenta e studiata dei vangeli e di tutta la Scrittura ci presenta un Gesù figlio unico. Tutti e quattro i vangeli canonici, gli Atti degli apostoli e alcune lettere paoline accennano a “fratelli” e, più vagamente, a “sorelle” di Gesù. Presso le prime comunità cristiane questi riferimenti non suscitavano alcun problema, né discussione, infatti in ambiente semita i termini “fratelli” e “sorelle” possono indicare anche i parenti e, in generale, i membri di un clan. Nel 160 d.C. un autore cristiano di origine palestinese, un certo Egesippo, afferma di conoscere alcuni discendenti della famiglia di Gesù. Nelle sue Memorie racconta che alcuni “fratelli” di Gesù erano in realtà dei cugini che furono processati dai Romani sotto l’imperatore Domiziano. Questa tesi fu adottata anche dal famoso traduttore latino della Bibbia, S. Girolamo, che, in una sua opera, “De perpetua virginitate”, scritta contro un certo Elvidio, considerò i “fratelli” e le “sorelle” di Gesù come dei suoi cugini, cioè gli appartenenti al clan familiare di Maria. Anche l’esegesi storico-critica moderna ha ribadito che dietro il termine greco del Nuovo Testamento per fratello, “adelfòs”, c’è l’aramaico “aha” e l’ebraico “ah” e questi termini possono significare sia il fratello, sia il cugino, sia il nipote, sia l’alleato, ma anche il membro della stessa tribù, il discepolo, ed anche il “prossimo” in generale, sempre che appartenente alla stessa città o nazione. Nell’ebraico moderno, ancora oggi, non esiste un termine per distinguere il fratello dal cugino e quindi gli israeliani devono ricorrere ad espressioni del tipo: “figlio della stessa madre” (o dello stesso padre) (V. Messori “Ipotesi su Maria”, Ares Milano 2005). Nell’Antico Testamento sono innumerevoli i casi in cui la parola fratello, in ebraico “ah”, è usata per indicare le parentele o i legami più svariati. Nella Genesi Abramo chiama il nipote Lot “fratello” (Gn 13, 8) e così anche Labano fa col nipote Giacobbe (Gn 29, 15). Anche Paolo usa spessissimo il termine “fratello” per indicare una comunanza spirituale o un legame che non è quello carnale e familiare. Il noto biblista Gianfranco Ravasi considera l’espressione “fratelli del Signore” che troviamo in Atti 1, 14, oppure in 1 Corinzi 9, 5, come la designazione di un gruppo ben definito, ossia i cristiani di origine giudaica legati al clan nazaretano di Cristo (sarebbe la setta nominata da Paolo in Atti 24, 14 e che Gesù stesso, in Gv 20, 17, avverte della sua risurrezione mandando loro Maria di Magdala). Essi costituirono una specie di comunità a se stante. Nel brano di Mc 3, 32-33, “Tutto intorno era seduta la folla e gli dissero: ”Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono fuori e ti cercano”. Ma egli rispose loro: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?”. Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: “Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre”, Gesù pare ridimensionare i loro privilegi e ridurli all’orizzonte della fedeltà alla Parola di Dio. Non sono mai chiamati “figli di Maria”, è una designazione riservata solo a Gesù. In questa luce, più che una designazione “genealogica”, la frase “fratelli e sorelle di Gesù” mirerebbe ad indicare un gruppo di persone legate a Gesù (G. Ravasi “Gesù e i suoi fratelli” da Avvenire, Agorà, 24/11/2002). 

Altro esempio di moderna esegesi del testo neotestamentario, che ho tratto dall'illuminante libro di Vittorio Messori “Ipotesi su Maria” e che può fare ulteriore chiarezza sull’uso del termine “fratello”, è quello riguardante l’analisi dell’episodio delle nozze di Cana (Gv 2, 1). All’inizio del passo non vengono citati “fratelli” di Gesù, questi, però, compaiono alla fine dell’episodio (Gv 2, 12): “Dopo questo fatto, discese a Cafàrnao insieme con sua madre, i fratelli e [in greco: kai] i suoi discepoli….”. Un noto biblista, Josè Miguel Garcia, esperto di testi in aramaico, fa notare che la particella greca “kai” traduce l’aramaico “waw” che significa, in questo caso, “cioè”, “ossia”. Infatti nei vangeli ricorre spesso il termine “kai” con tale significato. Ad esempio in Lc 22, 26 troviamo: “I sommi sacerdoti, con gli anziani, gli scribi e [kai] tutto il Sinedrio…”, se kai non traducesse la parola “cioè”, “ossia”, la frase non avrebbe senso visto che quelle tre categorie rappresentavano già “tutto il Sinedrio”. Infatti nell’originale aramaico troviamo anche qui il termine “waw” e, quindi, la frase va letta: “... cioè tutto il Sinedrio”. Si tratta di una precisazione dell’evangelista che vuole indicare anche i componenti dell’illustre consesso. Per analogia, tornando all’episodio delle nozze di Cana, se Gesù è accompagnato da sua madre e i discepoli, come mai ritorna a Cafàrnao con la madre, i fratelli e (kai) i suoi discepoli? Per congruenza narrativa tra l’inizio e la fine del racconto il testo andrebbe letto: “con sua madre e i suoi fratelli, cioè i suoi discepoli”. Se fossero stati veri fratelli di Gesù, allora sarebbe stato più logico un ritorno a Nazareth, loro città natale, invece si dirigono a Cafàrnao, il luogo scelto da Gesù per il suo operato in Galilea, quindi questi “fratelli” sono in realtà i suoi discepoli. Alla luce di tutto ciò i passi dei vangeli richiamati da L.Gardner non dimostrano che Gesù avesse dei fratelli e delle sorelle, bensì dei cugini. In Mt 13, 55-56 i “fratelli” di Gesù, Giacomo e Giuseppe, cioè Iose, sono in realtà i figli di una Maria discepola di Gesù che ritroviamo in Mt 27, 55-56: "C’erano anche la molte donne che stavano ad osservare da lontano; esse avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo. Tra costoro Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e Giuseppe e la madre dei figli di Zebedèo" e in Mc 15, 40-41: "C’erano anche alcune donne, che stavano ad osservare da lontano, tra le quali Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Joses, e Salome (probabilmente la madre dei figli di Zebedèo che troviamo in Matteo, n.d.r.), che lo seguivano e servivano quando era ancora in Galilea, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme". Questa stessa donna, poco dopo, è designata in modo significativo come “l’altra Maria” in Mt 28,1. Per Simone e Giuda, la parentela veniva dal loro padre Cleofa, fratello di Giuseppe (come ci informa Egesippo, uno scrittore giudeo-cristiano del II secolo d.C) e come questi discendente di Davide, il nome della loro madre, invece, non è noto. L’espressione che ritroviamo in questo passo “…non è costui il figlio del falegname?” in Mc 6, 3 diviene: “…non è costui il carpentiere?”, evidentemente Mc fa più attenzione alla nascita verginale di Gesù. In realtà, nei vangeli, molto raramente Gesù è chiamato il figlio di Giuseppe, ma solo il figlio di Maria e i cosiddetti “fratelli” e “sorelle” non sono mai chiamati i figli di Maria, ma sempre e solo i “fratelli” di Gesù. In ambiente semita, ed ebraico in particolare, il figlio non è mai chiamato con il nome della madre, a meno che il padre non sia morto o che la vedova non abbia altra prole. Dunque l’appellativo “Il figlio di Maria”, sempre riservato a Gesù, indica chiaramente il suo status di figlio unico. Anche i passi di Lc 2, 7 e Mt 1, 25, dove Gesù è detto “il primogenito di Maria” non dimostrano che Gesù avesse avuto dei fratelli. In realtà il termine “primogenito” per gli ebrei ha un valore giuridico importante in quanto designa i diritti biblici connessi alla primogenitura. Infatti nella Bibbia questo termine non indica l’origine cronologica di una nascita, ma piuttosto la preminenza, la superiorità. Ad esempio, è famoso l’episodio della Genesi in cui Esaù vende la sua “Primogenitura” a Giacobbe per un piatto di lenticchie; in Dt 7, 6-8, Israele è chiamato “figlio primogenito” da Jahvè non perché creato prima degli altri popoli, ma per la sua elezione ad essere il “popolo eletto”. Allo stesso modo Davide, benché il più piccolo tra i figli di Jesse, in 1 Sam 16, 10-13, è costituito primogenito perché il più grande tra i re della terra. Così Gesù è detto Primogenito perché superiore a tutti, Egli è: “L’Alfa e l’Omega, il Primo e L’Ultimo, il Principio e Fine” (Ap 22, 13). Anche dal punto di vista archeologico abbiamo numerose conferme sull’importanza del titolo di “Primogenito”. Sono stati ritrovati, infatti, papiri scritti in aramaico del I secolo d.C. e lapidi dove vengono ricordate le morti di madri mentre partorivano i loro figli “primogeniti”, precisazione evidentemente inutile se non indicasse un vero e proprio “titolo”. Se Gesù fosse stato davvero il primo di tanti fratelli, allora gli episodi di Mc 3, 21 e Gv 7, 5, in cui Gesù viene da loro rimproverato, descrivono situazioni assolutamente improbabili. Troviamo scritto, infatti, nella Genesi: "Sii padrone dei tuoi fratelli, si inchinino davanti a te i figli tua madre", quindi questi “fratelli”, per potersi permettere di criticare Gesù, devono essere per forza più anziani di Lui e allora non possono essere figli di Maria. 

Per concludere vorrei citare un ultimo episodio dei vangeli, molto toccante, che conserva il suo senso e la sua dolcezza solo nella visione cattolica dello status anagrafico di Gesù: "Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e li accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna ecco il tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco la tua madre!”. E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa" (Gv 19, 25-27). Se Maria avesse avuto altri figli, come è possibile che Gesù morente l’affidi ad un suo discepolo, quello che amava più di tutti, l’unico presente sotto la croce? Tutto ciò si spiega solo con il fatto che Gesù era figlio unico e quindi la stava lasciando veramente da sola.