lunedì 12 marzo 2012

La Chiesa e lo schiavismo

Tra le accuse che ripetitivamente i laicisti anticlericali rinfacciano alla Chiesa Cattolica e al Cristianesimo c’è quella di non aver saputo impedire un fenomeno come lo schiavismo, di non essere stata, quindi, vera portatrice del messaggio evangelico dell'eguaglianza tra gli esseri umani. I più estremisti sostengono addirittura che la Chiesa avrebbe teorizzato la diseguaglianza tra razze, legittimando così l'istituto dello schiavismo (Karlheinz Deschner, “Storia critica della chiesa”).

Ritenendo che Gesù, in sostanza, si disinteressi della schiavitù, le accuse si concentrano principalmente sulla figura di Paolo per quanto afferma nella prima lettera ai Corinzi, al capitolo 7: “Ognuno rimanga in quella condizione in cui era quando fu chiamato. Sei stato chiamato quando eri schiavo? Non te ne preoccupare…”. Secondo le accuse dei laicisti Paolo non dichiara la schiavitù un’ingiustizia, nonostante conosca esattamente il triste destino degli schiavi, il cui numero era assai notevole nelle sue comunità (Leipoldt, “Der soziale Gedanke” 122).

Tali posizioni sono storicamente inaccettabili in quanto per avere un’analisi il più possibile aderente alla realtà storica occorre preliminarmente una contestualizzazione del problema. Nell’età antica, prima dell’avvento del Cristianesimo, lo schiavismo era un istituto diffuso in tutte le società umane, dall’Egitto dei faraoni e gli imperi mesopotamici fino alle società greche e romana. In Grecia la schiavitù era considerata un fatto naturale, tutti i non greci, i barbari fatti prigionieri in guerra, erano considerati automaticamente schiavi. Sia per Platone che per Aristotele gli stranieri sono schiavi per natura, esseri inferiori al pari della femmina (Olivier Petre Grenouilleau “La tratta degli schiavi”, il Mulino, Bologna 2004). Nell’impero romano, invece, la schiavitù era vista come un istituto di diritto positivo, cioè non si nasce schiavi, ma lo si diventa. Quella romana era una società profondamente schiavista piena di poveretti ridotti allo stato di animali alla continua mercé dei loro padroni (J. A. Raymond Descat, “Gli schiavi nel mondo greco romano”, 2006). 

In questa situazione, dove erano sconosciuto il valore universale della vita umana, irrompe il messaggio cristiano. Paolo di Tarso scrive ai cristiani della Galazia: “Non c’è qui né Giudeo né Greco; non c’è né schiavo né libero; non c’è né maschio né femmina; perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù" (Lettera ai Galati 3, 28). Di fatto il Cristianesimo introduce un principio nuovo e comincia ad affermare che tutti gli uomini sono uguali davanti a Dio. Per primo il Cristianesimo comincia a considerare gli schiavi depositari del diritto di avere una famiglia, di accedere ai sacramenti, di partecipare alla liturgia allo stesso livello dei loro padroni, di essere trattati con giustizia ed umanità. Man mano che il Cristianesimo, lentamente, andava imponendosi, parimenti veniva attenuata ed "umanizzata" la schiavitù. Testimonianza di questo nuovo principio è la lettera di Paolo a Filemone: l'Apostolo delle Genti non chiede all'amico Filemone di liberare lo schiavo Onesimo, da lui fuggito, ma di trattarlo come un fratello carissimo. 

Fin dal principio la Chiesa non ritenne opportuno combattere contro l’istituto della schiavitù come sistema economico considerando illusoria un’azione sulle strutture in una società non ancora influenzata dal Cristianesimo. Ma ciò non impedì che la cristianizzazione dell’impero facesse regredire rapidamente la schiavitù fino alla sparizione completa, almeno nella sua spietata ed inumana forma antica.

Ma la propaganda laicista non si arrende arrivando ad affermare che la Chiesa nel medioevo, quando poteva influenzare tutta l’Europa, ha tollerato, anzi incoraggiato la schiavitù, con l’istituto della servitù della gleba. Si tratta, anche qui, di pura ignoranza. In realtà nel medioevo l’Europa cristiana fu l’unica società dell’epoca dove la schiavitù non era presente, mentre lo era, diffusissima, tra gli arabi, i cinesi, ecc. La servitù della gleba, infatti, non deve essere confusa con la schiavitù. La servitù rappresentò un contratto all’interno della società feudale dove il servo è addetto ad un appezzamento di terra, paga un canone sotto forma di servizi o beni in natura al signore locale ricevendo da questo protezione, garanzia dell’ordine e della giustizia. Il servo della gleba conserva il godimento dei diritti fondamentali della persona umana. In tempi particolarmente difficili la servitù rappresentò una vera garanzia di sopravvivenza per i contadini in quanto assicura loro un minimo di sicurezza. La servitù perderà la sua ragione d’essere quando la rinascita delle istituzioni pubbliche permetterà una difesa effettiva dei più deboli.

Ma i laicisti insistono: il papato è stato sempre a favore della schiavitù lo testimonierebbe un documento inoppugnabile come la “Instructio 1293” di papa Pio IX del 1866 (Collectanea, Vol. 1, pp. 715-720), dove viene incoraggiato l’istituto della schiavitù. Ma, come al solito, si tratta dell’ennesima falsificazione operata dagli anticattolici, infatti il documento in questione è in latino ed il termine utilizzato nel documento e tradotto male con la parola schiavitù è “servitudo” e quello tradotto con la parola schiavi è “serviti”. Quindi tale documento non parla di schiavitù e di schiavi, ma di coloro i quali si trovano in servitù penale (come ad esempio carcerati che sono costretti al lavoro) e in servitù volontaria, contrattata (chi liberamente per motivi economici mette a disposizione di qualcuno la sua libertà). Si tratta, quindi, di istituti che non sono in contrasto con il vangelo.

In realtà molto tempo prima che il mondo laico abolì lo schiavismo nel XIX secolo la Chiesa fu l’unica voce a levarsi contro lo schiavismo, la “tratta dei negri” e la riduzione in schiavitù degli indios americani. Già nell'anno 1102 un concilio cattolico a Londra severamente vietava il traffico di schiavi che definiva “nefarium negotium” cioè un traffico infame (La Civiltà cattolica, Anno secondo, Volume VII, edizioni La Civiltà cattolica, 1851, p.67), papi come Pio II nel XV secolo, Eugenio IV con la sua bolla “Sicut dudum” del 1435, quella di Paolo III, la “Sublimis Deus” nel 1537, quella di Papa Urbano VIII emessa nel 1639, quella di Papa Benedetto XIV la “Immensa Pastorum principis” nel 1741, la richiesta della proibizione del commercio degli schiavi di papa Pio VII al Congresso di Vienna del 1815, ecc. Purtroppo molto spesso furono appelli che caddero nel vuoto, ma che contribuirono a riformare la società moderna caduta nell’abominio della tratta degli schiavi africani. Un pratica disumana in palese contrasto con la tradizione cristiana cattolica, ma ben tollerata dai più grandi pensatori del laicissimo illuminismo come Voltaire, Marx, Nietzsche, Galton, Hume, Locke, Arthur de Gobineau ecc., che investirono i loro risparmi nel commercio degli schiavi. 


Bibliografia

G. Gliozzi”La scoperta dei selvaggi. Antropologia e colonialismo da Colombo a Diderot” Principato, Milano 1971;
D. Brion Davis “Il problema della schiavitù nella cultura occidentale” SEI, Torino 1971;
Olivier Petre Grenouilleau “La tratta degli schiavi”, il Mulino, Bologna 2004;
J. A. Raymond Descat “Gli schiavi nel mondo greco romano”, 2006.

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